A volte metto una parola in un luogo buio

COP_Borges-e-la-memoria_590-1539-0In generale, quando S. sbagliava non era per un problema di memoria, ma di percezione: l’errore era dovuto al fatto che non aveva prestato abbastanza attenzione a qualche parola, oppure che nella sua passeggiata immaginaria aveva collocato la rappresentazione visiva di una parola in un luogo poco visibile. Per esempio, in una seduta del 1932 giustifica un errore dicendo:
Ho messo l’immagine di una matita vicino a uno steccato… Ma ciò che è successo è che l’immagine si era fusa con quella dello steccato quindi ho finito per andare oltre, senza vederla… A volte metto una parola in un luogo buio e poi faccio fatica a distinguerla quando ci passo. Prenda la parola «scatola», per esempio. L’ho messa nella nicchia di un cancello e visto che lì dentro era buio, non sono riuscito a vederla…

Rodrigo Quian Quiroga, Borges e la memoria, traduzione di Rossella Sardi, Erikson (2018)

 

Scarpe numero 49

A quei tempi in Egitto una donna-faraone era assolutamente impensabile. c6e5fb012fbb6ce866930c9fc02a2b44_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyPerciò, a fini di pubblica rappresentanza, [Hatshepsut] dovette cambiare sesso e mostrarsi, eccezion fatta per la camera da letto, con una barba posticcia e un gonnellino maschile. Immaginiamoci oggi la regina d’Inghilterra che, per pronunciare il suo annuale discorso al Parlamento, sia costretta ad appiccicarsi un paio di baffi finti e a infilarsi scarpe numero 49…

Wisława Szymborska, Letture facoltative, traduzione di Valentina Parisi, Adelphi (2006)

 

E servimmo solo espressi

etgar-keretLà un cameriere mi aveva detto che durante la guerra le persone che entravano nel locale facevano fatica a scegliere la parola giusta quando volevano ordinare un caffè. La parola “caffè”, mi aveva spiegato, è diversa in croato, bosniaco e serbo, e la scelta di una parola così innocente era gravida di minacciose connotazioni politiche. “Per non correre rischi,” aveva detto, “la gente cominciò a ordinare un espresso, che è una parola italiana neutrale, e dalla sera alla mattina noi qui cessammo di servire caffè e servimmo solo espressi”.

Etgar Keret, Sette anni di felicità, traduzione di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli (2015)

 

Una famiglia deliziosa

Una mattina di febbraio, a colazione, mio padre mi disse: «Sei sveglia, Ilana? Ehi$_35? C’è nessuno lì?».
«Sono sveglia, papà».
«Non ne ero sicuro. Quando qualcuno ha gli occhi chiusi, non si può sapere se sia sveglio o meno. Non ti domanderò a che ora sei andata a letto ieri notte. A che ora sei andata a letto ieri notte?».
«Non mi ricordo, papà».
«La tua luce era ancora accesa quando io ho spento la mia», disse David.
«Non mi sembri troppo sveglio neanche tu», disse mio padre.
«Sono sveglio», disse David.
«Una famiglia di gufi notturni», disse mio padre. «Una famiglia di divoratori di libri». Sorrise, e scucchiaiò il suo pompelmo. «Una famiglia deliziosa».

Chaim Potok, L’arpa di Davita, traduzione di Dario Villa, Garzanti (1989)

Una vaga coloritura ironica

$_35Era […] sollecito e discreto, dotato di un’urbanità di modi […]: un leggero inchino quando incontrava qualche sconosciuto; un modo di considerare seriamente tutti gli aspetti di una conversazione; un momento di riflessione prima di rispondere alle domande; una vaga coloritura ironica che serpeggiava a volte tra le sue parole […] Era ordinato e disciplinato […] Trattava mia madre con affetto e tenerezza.

Chaim Potok, L’arpa di Davita, traduzione di Dario Villa, Garzanti (1989)

Tartine de merde

Tolstoj, si racconta, ha detto che la vita è una «tartine de merde» che si è PZ 400-024-4010obbligati a mangiare lentamente. È d’accordo?
Non ho mai sentito questa storia. Qualche volta il buon uomo riusciva a essere alquanto disgustoso, non le sembra? La mia vita è pane fresco con burro di campagna e miele delle Alpi.

Vladimir Nabokov, Intransigenze, Adelphi (1994). Nella foto (Wikipedia), Il’ja Repin, Lev Tolstoj (1901), Museo russo, San Pietroburgo.