Una tassonomia dei mangioni

Una volta lo scrittore André Borel d’Hauterive tentò una tassonomia dei mangioni: il buongustaio (apprezza il buon cibo e il buon vino e mangia in modo ragionevole), il ghiottone (preferisce la quantità alla qualità), il goloso (ha un debole per i dolci), l’ingordo (mangia all’eccesso con entusiasmo), il panciuto (“fa del suo stomaco un dio”), il famelico (arriva il dolce e non ha idea di cosa ha mangiato), l’insaziabile (arriva il dolce e non ha idea di quanto ha mangiato).

Lauren Collins, The Hottest Restaurant in France Is an All-You-Can-Eat Buffet, The New Yorker (8/4/2024), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) André Borel d’Hauterive.

Rovina a terra tra le risate

Nella stagione in cui il carattere di un ragazzo si cristallizza nel temperamento che lo accompagnerà nell’età adulta, l’irrequietezza e il desiderio di rivalsa diventano i suoi tratti distintivi.
Giovannino Guareschi stringe un’alleanza col più scatenato dei compagni, Nino Bocchi detto il Nibbio. I due si pongono alla testa d’una banda di compagni refrattari alle norme del collegio, e la notte, in camerata, si divertono alle spalle dell’istitutore Zavattini: si fingono addormentati finché questi non sprofonda nel sonno, scivolano a inchiodargli le pantofole al pavimento, tornano nei propri giacigli e all’improvviso lanciano selvagge grida d’allarme. «Za», svegliato di soprassalto, s’affanna per precipitarsi in soccorso dei ragazzi che gli sono stati affidati, ma come infila le pantofole e fa per muovere il primo passo rovina a terra tra le risate.

Enrico Brizzi, Il fantasma in bicicletta, Solferino (2022). Nella foto (Cinefile) Cesare Zavattini.

Lottare per le donne mature

Marin Alsop ha dimostrato che è possibile essere una direttrice d’orchestra donna di una delle più grandi orchestre degli Stati Uniti. Eppure oggi si trova ad affrontare un altro soffitto di cristallo, in quanto donna non più giovane.
“Per le donne c’è molta più discriminazione per età”, ha detto. “Quindi questa è una delle mie nuove battaglie: lottare per le donne mature, affinché anche a loro siano offerti gli stessi tempi, le stesse opportunità e la stessa considerazione” degli uomini.

Zachary Woolfe, Can Marin Alsop Shatter Another Glass Ceiling?, The New York Times (6/5/2024), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia, Governo do Estado de São Paulo) Marin Aslop mentre dirige l’Orchestra Sinfonica dello Stato di San Paolo in Brasile nel 2017.

Se ci fosse una clinica riservata ai vocaboli

Specialmente in ambito meridionale, può succedere che una parola e il corrispondente significato vengano ribaltati, spogliati di senso o travisati. Onore ha smarrito il suo senso originale per essere stata troppo spesso riferita ai cosiddetti uomini d’onore. Dopo un travisamento del genere la parola risulta esausta. Impossibile adoperarla restituendole il senso originario. Se ci fosse una clinica riservata ai vocaboli si dovrebbe prudenzialmente consigliarne il ricovero per accertamenti. E durante il ricovero si tratterebbe di destrutturarla, azzerarne la memoria. Lasciare che il mondo si dimentichi della parola onore in attesa di recuperarne il senso vero. Oppure, ecco: decretarne un fermo biologico, come si fa con la pesca delle specie ittiche o faunistiche in certi periodi dell’anno, per consentire il ripascimento.

Roberto Alajmo, Abbecedario siciliano, Sellerio (2023)

Si potrebbe parafrasare gran parte dell’opera di Beethoven nello spirito di Gramsci

La Nona sinfonia è una delle opere d’arte più importanti della cultura occidentale. Alcuni esperti la definiscono la più grande sinfonia mai scritta e molti commentatori ne lodano il messaggio visionario. È anche una delle opere più rivoluzionarie di un compositore caratterizzato proprio dalla natura rivoluzionaria delle sue opere. Beethoven ha liberato la musica dalle convenzioni prevalenti di armonia e struttura. A volte nei suoi ultimi lavori sento la volontà di rompere ogni segno di continuità.
Il filosofo italiano Antonio Gramsci aveva detto una cosa meravigliosa nel 1929, quando Benito Mussolini teneva in scacco l’Italia. “Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista con la volontà”, aveva scritto a un amico dal carcere. Penso che intendesse dire che finché siamo vivi, abbiamo speranza. Cerco di fare ancora oggi tesoro delle parole di Gramsci, anche se non sempre con successo.
A detta di tutti Beethoven era coraggioso, e trovo che il coraggio sia una qualità essenziale per la comprensione, per non parlare dell’esecuzione, della Nona. Si potrebbe parafrasare gran parte dell’opera di Beethoven nello spirito di Gramsci dicendo che la sofferenza è inevitabile, ma che il coraggio di superare tale sofferenza rende la vita degna di essere vissuta.

Daniel Barenboim, What Beethoven’s Ninth Teaches Us, The New York Times (6/5/2024), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) Antonio Gramsci.

Che vuol dire bacca splendida

Cabbasìsi. Termine che grazie a Camilleri è passato direttamente dal dialetto alla lingua senza nemmeno bisogno di traduzione, col risultato di smorzare in parte il retrogusto di volgarità.
A quanto pare deriva dall’arabo habbaziz, che vuol dire bacca splendida, ed effettivamente la forma ovoidale dei piccoli tuberi della pianta denominata Cyperus esculentus (cipero o zigolo dolce) potrebbe lasciar pensare a quella determinata cosa.

Roberto Alajmo, Abbecedario siciliano, Sellerio (2023). Nella foto (Wikipedia) tuberi di cipero.

Il simbolo di un precario benessere

Buatta. Il francese boîte genera in tutto il meridione questa variante transdialettale che definisce il contenitore di lamiera stagnata destinato alla conservazione degli alimenti, barattolo o scatola che sia.
Buattòna quindi è in origine il contenitore grande, destinato alle conserve più consistenti, prima che il termine passasse a definire le persone corpulente, in senso dispregiativo.
Nelle famiglie povere la buatta rappresentava il contrasto alla penuria, il simbolo di un precario benessere. Ancora oggi è nelle buatte che si trova conforto durante l’inverno, la stagione in cui fin quando c’è buatta di pomodoro c’è speranza.

Roberto Alajmo, Abbecedario siciliano, Sellerio (2023)

Ah, sì, la Terra…

«Abito sul pianeta Terra». Avrò mai un giorno l’occasione di dirlo a qualcuno? Se fosse un “III tipo” disceso nel nostro infimo mondo, lo saprebbe di già. Ma se sarò io a trovarmi da qualche parte nei pressi di Attarus o di KX1809B, dovrò certamente segnalare che «abito il terzo (il solo abitato d’altronde) dei pianeti principali del sistema solare nell’ordine crescente della loro distanza rispetto al sole» o «abito uno dei pianeti di una delle più giovani stelle nane gialle situate ai bordi di una galassia d’importanza mediocre designata arbitrariamente con il nome di Via Lattea». E all’inizio ci sarebbe una probabilità su centomila milioni di miliardi (ossia solamente 10 alla ventesima) che mi risponda: «Ah, sì, la Terra…»

Georges Perec, Pensare/Classificare, traduzione di Sergio Pautasso, Macerata, Quodlibet 2024, grazie a Paolo Nori.

Per sfinimento

Per secoli e secoli l’accento è caduto sulla i: Belìce, dal fiume che attraversa la valle. Poi, nel 1969, ci fu il terremoto che ebbe epicentro proprio lì.
Nella concitazione dei primi momenti, coi servizi da confezionare di fretta, un inviato della Rai non trovò il tempo di informarsi e si lanciò a dire: Bèlice. Con l’accento sulla prima e. Creato un precedente, lui e anche tutti gli altri giornalisti continuarono a dire Bèlice, e da quel momento in poi il mondo seppe che c’era un posto che si chiamava Valle del Bèlice. Gli abitanti del Belìce in quel frangente avevano troppi problemi per mettersi a questionare sugli accenti, e quando finalmente si sarebbe potuto chiarire era ormai troppo tardi: anche agli abitanti del posto non restò che adeguarsi a quel che la televisione aveva stabilito. Così che oggi anche nel Belìce quasi tutti, per sfinimento, si sono rassegnati a dire Bèlice.

Roberto Alajmo, Abbecedario siciliano, Sellerio (2023)

E si dimenticò di essere mai stata slava

Ebbene il Drang nach Osten che comincia nel Medioevo è anche all’origine del regno di Prussia.
All’inizio questa spinta coloniale, questa immigrazione organizzata verso l’Europa orientale fu diretta dagli imperatori del Sacro Romano Impero. Sotto la loro guida venne creato un paese nuovo, la marca di Brandeburgo, e fu creata una nuova città, che si chiamò Berlino. Oggi i linguisti ci dicono che il nome di Berlino non è neanche tedesco, deriva da una radice slava che ha a che fare con le paludi. E questo evidentemente è quello che c’era lì prima che arrivassero i coloni tedeschi: un villaggio slavo e paludi. Ma Bär in tedesco vuol dire «orso», e Berlino mise un orso nel suo stemma e si dimenticò di essere mai stata slava.

Alessandro Barbero, Federico il Grande, Sellerio (2017). Nella foto (Wikipedia) una vista dall’alto dei dintorni di Berlino con i suoi boschi e i suoi laghi.