C’è, verso il paese dei Cimmèrii, una spelonca dai profondi recessi, dimora occulta del Sonno pigro, dove mai il Sole può penetrare con i suoi raggi, o sorga, o sia alto o tramonti, ma sempre nebbie e foschia salgono su dalla terra, in un chiarore incerto di crepuscolo. Qui non c’è uccello dal capo crestato che vegli e col canto chiami l’Aurora; non rompono il silenzio, con le loro voci, cani attenti o oche ancora più accorte dei cani. Non si ode un suono, né di bestie selvatiche, né di greggi, né di rami mossi dall’alito del vento, non si ode cicaleccio di lingua umana. Muta quiete domina. Solo sgorga dal piede della roccia un rivolo del Lete, la cui acqua scivola via mormorando tra un fruscio di sassolini e concilia il sonno. Davanti all’antro un manto di rigogliosi papaveri e innumerevoli erbe da cui la Notte spreme il sopore per spargerlo, umida, sulle terre immerse nel buio. In tutta la casa non c’è una porta, per non sentire cigolii di cardini; nessuno sta di guardia sulla soglia. In mezzo alla grotta c’è un alto letto d’ebano con sopra un materasso di piume, tutto dello stesso colore, coperto da un drappo scuro, e su di esso è sdraiato il dio in persona, con le membra languidamente abbandonate. E intorno giacciono sparsi qua e là, con aspetti vari, i Sogni vani, tanti quante sono le spighe del raccolto, quante le fronde del bosco, quanti i grani di rena della spiaggia.
Ovidio, Metamorfosi, libro undicesimo (592-615), traduzione di Piero Bernardini Marzolla (Einaudi 2015).