“Sa cosa è?” mi ha chiesto.
“Polvere”, ho risposto io.
“sì, ma la polvere delle strade e delle case non arriva fin qui. Questa è polvere che viene dalle stelle”.
Io credevo che mi pigliasse in giro, ma poi siamo scesi, e lui mi ha fatto vedere con la lente che erano tutti pallini rotondi, e mi ha mostrato che la calamita li tirava, insomma erano di ferro. E mi ha spiegato che erano stelle cadenti che avevano finito di cadere: se uno va un po’ in alto in un posto che sia pulito e isolato, ne trova sempre, basta che non ci sia pendenza e che la pioggia non le lavi via. Lei non ci crede, e neanche io sul momento non ci ho creduto; ma col mio mestiere capita sovente di trovarsi in alto in dei posti come quelli, e ho poi visto che la polvere c’è sempre, e più anni passano, più ce n’è, di modo che funziona come un orologio. Anzi, come una di quelle clessidre che servono per fare le uova sode; e io di quella polvere ne ho raccolta un po’ in tutte le parti del mondo, e la tengo a casa in uno scatolino; voglio dire a casa delle mie zie, perché io una casa non ce l’ho. Se un giorno ci troviamo a Torino gliela faccio vedere, e se ci pensa è una faccenda malinconica, quelle stelle filanti che sembrano le comete del presepio, uno le vede e pensa un desiderio, e poi cascano giù, si raffreddano, e diventano pallini di ferro da due decimi. Ma non mi faccia perdere il filo.
Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi (1978)