Primo, secondo, terzo fuoco

Le argomentazioni di Stephen J. Pyne a favore del Pirocene iniziano proprio dal fuoco stesso, di cui distingue tre tipi. Il “primo fuoco” è quello che non richiede alcun intervento umano. È antico quanto le colline, o forse ancora di più: le prime tracce di fuoco sulla Terra provengono dal carbon fossile, la cui datazione le fa risalire al periodo del Siluriano, quando le piante stavano appena iniziando ad abbarbicarsi sulle terre emerse. Il secondo fuoco, nello schema di Pyne, è il tipo a cui gli umani danno inizio, o quanto meno controllano. Non è chiaro quando, esattamente, gli ominidi abbiano imparato a manipolare il fuoco, ma la scoperta potrebbe risalire a 1,5 milioni di anni fa. Il controllo del fuoco è stato un progresso talmente significativo che, secondo Pyne, ha modificato il corso dell’evoluzione. La cottura dei cibi ha permesso ai nostri antenati di dedicare meno tempo alla digestione e più tempo alla cognizione. Tali sviluppi hanno, a loro volta, fatto sì che gli esseri umani non potessero più vivere senza fiamme.
Il primo e il secondo fuoco sono entrambi basati sulla stessa fonte di combustibile: piante viventi, o in vita fino a poco tempo prima di essere bruciate. Per gran parte della storia umana questo è stato il limite alle possibilità di combustione. Poi le persone hanno capito come accedere all’antica biomassa sotto forma di carbone, petrolio e gas naturale. La combustione dei combustibili fossili ha prodotto il terzo fuoco, che ha alterato l’atmosfera e, di conseguenza, il clima. “Il fuoco ha creato le condizioni per ulteriori fuochi”, ha scritto Pyne.

Elizabeth Kolbert, The Perverse Policies That Fuel Wildfires, The New Yorker (25/3/2024), traduzione L.V. Nella foto (stephenpyne.com) Stephen J. Pyne.

L’inconfondibile firma virale di un herpesvirus

La scoperta del virus non è stata rapida. Il dottor Burkitt aveva inviato alcune biopsie tumorali a Londra da Kampala, in Uganda, ma in questi primi campioni il dottor Epstein non era riuscito a trovare tracce virali, secondo Darryl Hill, il ricercatore che ha commemorato il dottor Epstein in un articolo per l’Università di Bristol.
Un nuovo pacco contenente biopsie era stato spedito e quindi dirottato dall’aeroporto di Heathrow a un altro aeroporto, a Manchester, in Inghilterra, a causa della nebbia. I campioni al suo interno sembravano essersi deteriorati, aveva detto il dottor Hill.
“Quando i campioni arrivarono finalmente nelle mani di Tony, erano diventati torbidi, generalmente un segno di contaminazione batterica per cui avrebbero dovuto essere buttati via”, ha scritto il dottor Hill nel suo tributo. “Tony però non li buttò via e li esaminò attentamente”. “Con sua sorpresa scoprì che l’opacità era dovuta alle cellule tumorali linfoidi che, durante il trasporto, si erano staccate dalla biopsia e ora galleggiavano allegramente in sospensione”. Il dottor Hill ha proseguito nel racconto: “Tony aveva sfruttato quella scoperta casuale per far crescere in coltura alcune linee cellulari, derivate dal tumore, dimostrando che erano in grado di rimanere in vita indefinitamente”.
Studiando i nuovi campioni con un potente microscopio elettronico, il dottor Epstein era stato in grado di individuarvi l’inconfondibile firma virale di un herpesvirus. Il dottor Hill ha definito la scoperta un momento “eureka”.
Il dottor Epstein, la dottoressa Barr e il dottor Bert Achong, che aveva preparato i campioni per la microscopia elettronica, annunciarono la loro scoperta in un articolo scientifico pubblicato sul numero di marzo 1964 della rivista scientifica The Lancet.

Delthia Ricks, Dr. Anthony Epstein, Pathologist Who Discovered Epstein-Barr Virus, Dies at 102, The New York Times (6/3/2024). Nella foto (European Association for Haematopathology) la fotografia del campione di cellule di linfoma di Burkitt osservate al microscopio elettronico, in cui si vede la presenza dell’herpesvirus che poi prenderà il nome di virus di Epstein-Barr (EBV). La fotografia è stata pubblicata in un articolo sul numero di marzo 1964 della rivista scientifica The Lancet.

Una fonte particolarmente abbondante di radiazioni

Il motivo per cui i cinghiali nella Germania meridionale portano più tracce delle radiazioni rispetto ad altri animali sta in un fungo, l’Elaphomyces, o tartufo dei cervi. I cinghiali scavano e mangiano questo fungo che altri animali selvatici ignorano, ha spiegato il professor Steinhauser, chiarendo un elemento cruciale di quello che è stato a lungo un mistero.
Sebbene molti altri organismi commestibili non siano più contaminati in modo significativo, gli Elaphomyces, che crescono diversi centimetri sotto la superficie terrestre, immagazzinano le radiazioni in modo particolarmente efficiente. (Secondo l’Ufficio federale tedesco per la protezione dalle radiazioni, alcuni funghi selvatici possono raggiungere più di 1000 becquerel per chilogrammo, sebbene i funghi selvatici siano ritenuti comunque sicuri se mangiati in piccole quantità).
A seconda della composizione del terreno e della profondità, i funghi possono essere esposti ad acqua contenente radiazioni vecchie anche di decenni, dovute sia ai test nucleari sia al disastro di Černobyl’, e per questo sono una fonte particolarmente abbondante di radiazioni.
Il signor Steiner, dell’Ufficio federale per la radioprotezione, ha osservato che, qualunque sia la fonte delle radiazioni, queste rappresentano comunque un rischio per gli esseri umani se i livelli sono sufficientemente elevati.
“Quando si tratta dell’esposizione degli esseri umani alle radiazioni, non importa se il cesio proviene dalla radioattività rilasciata dai test di armamenti nucleari o da quella dovuta all’incidente del reattore di Černobyl’”, ha detto, aggiungendo: “Ciò che conta è l’apporto totale di cesio-137 che una persona assume con gli alimenti provenienti dalla foresta”.

Christopher F. Schuetze, Europe’s Boars Still Hold Radioactivity. What Surprised Scientists Is Why, The New York Times (2/9/2023). Nell’illustrazione (Wikipedia) Elaphomyces vulgaris.

Amore per la provvisoria

I produttori di solito organizzano delle proiezioni di prova prima che il compositore abbia terminato la partitura, e in questi casi il regista aggiunge di solito una colonna sonora segnaposto, chiamata “musica provvisoria”. Burwell ha detto di non amare questa pratica perché, una volta che i registi hanno visto una scena con la musica provvisoria, per loro diventa difficile immaginarsela in altro modo. Nel settore il fenomeno è come “amore per la provvisoria”. La musica provvisoria può anche lasciare tracce nelle colonne sonore definitive. “Mi è capitato di andare al cinema e pensare, hmm, scommetto che per questo film hanno usato la colonna sonora del Gladiatore come musica provvisoria, perché suona proprio così”, ha detto Burwell.

David Owen, The Polymath Film Composer Known as “the Third Coen Brother”, The New Yorker (14/11/22), traduzione L.V. Nella foto (Christine Sciulli) Carter Burwell ad Amagansett (2016).

Gli acquedotti sembrano una pianta spontanea

La Campagna è disseminata di tracce dell’uomo, ma ogni ricordo legato a esse è svanito. Ciò che è stato fatto qui si dimentica presto, e diventa tutt’uno con la natura. Gli acquedotti sembrano una pianta spontanea della Campagna, piuttosto che una creazione dell’uomo.

Pavel Muratov, Immagini dell’Italia, II, traduzione di Alessandro Romano, Adelphi (2021). Nella foto (viene da qui) l’acquedotto Claudio.

Affiorano ovunque le vestigia della sua grandezza

Il Quattrocento ha lasciato poche tracce a Roma. I primi papi a reinsediarsi qui dopo la cattività avignonese trovarono una Roma immiserita, spopolata e rimasta molto indietro rispetto alle altre città italiane. A metà del XV secolo, allorché Firenze di Cosimo il Vecchio, a testimonianza del fiorire di una civiltà nuova, edificava palazzi e ornava di affreschi le chiese, Roma restava in tutto e per tutto una città medioevale, piena di rovine e di monasteri, di quartieri poveri infestati dalla malaria e di estese lande brulle, arena di selvagge contese tra i Colonna e gli Orsini. Dopo la natia Siena, rinomata per la sua vita amena e raffinata, il papa umanista Enea Silvio Piccolomini dovette sentirsi alquanto a disagio in un luogo simile. Né a lui né al suo successore Paolo II riuscì di modificare, se non in minima parte, la fisionomia della città. A Roma la storia del Medioevo si protrasse fino al 1471, anno dell’elezione di Sisto IV. Da quella data, non c’è dubbio, ha inizio la storia della Roma pontificia, che raggiunse ogni sorta di magnificenza nel XVI e XVII secolo, declinò a poco a poco nel XVIII, e al tempo di Garibaldi cessò di vivere; certo però non cessò di esistere, poiché ancora oggi, attraverso la pur misera realtà di capitale dell’Italia contemporanea, affiorano ovunque le vestigia della sua grandezza.

Pavel Muratov, Immagini dell’Italia, II, traduzione di Alessandro Romano, Adelphi (2021)

Iniziamo a darne qualche segno

Come mi ha detto Russ Mittermeier, Chief Conservation Officer del Global Wildlife Conservation: “Ci meravigliamo quando un veicolo spaziale atterra su Marte alla ricerca di minuscole tracce di vita che forse neppure esistono”. Allo stesso tempo, qui sulla Terra, “continuiamo a distruggere e degradare ecosistemi straordinariamente diversi, come le foreste tropicali e le barriere coralline” che ci danno sostentamento e ricchezza.
Fermare queste attività è l’unico vaccino veramente sostenibile contro la prossima pandemia. In altre parole, è ora che smettiamo di cercare la vita intelligente su Marte e che iniziamo a darne qualche segno qui sul pianeta Terra.

Thomas L. Friedman, One Year Later, We Still Have No Plan to Prevent the Next Pandemic, The New York Times (16/3/2021), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) Russell Mittermeier.