La vita è rumore

Noi oggi viviamo in un mondo terrestre «molto rumoroso» e siamo portati a pensare che sia sempre stato così. Tra l’altro, nel panorama della biodiversità noi ci candidiamo per la palma dei più rumorosi grazie alle nostre attività. Ora però sto scrivendo in un giardino e sento uccelli e insetti che fanno molti suoni, mentre altri sono prodotti dal vento che muove le foglie degli alberi. Ecco, le terre emerse, prima di essere colonizzate dagli esseri viventi, erano un luogo molto, ma molto tranquillo. Gli unici suoni erano quelli dei fenomeni atmosferici, del vento, dell’acqua dei fiumi e dei mari, ma a parte questo regnava il silenzio, come in un deserto. Nel caso non lo aveste mai pensato, la vita è rumore.

Maurizio Casiraghi, Vite formidabili, Il Mulino (2024)

Ah, sì, la Terra…

«Abito sul pianeta Terra». Avrò mai un giorno l’occasione di dirlo a qualcuno? Se fosse un “III tipo” disceso nel nostro infimo mondo, lo saprebbe di già. Ma se sarò io a trovarmi da qualche parte nei pressi di Attarus o di KX1809B, dovrò certamente segnalare che «abito il terzo (il solo abitato d’altronde) dei pianeti principali del sistema solare nell’ordine crescente della loro distanza rispetto al sole» o «abito uno dei pianeti di una delle più giovani stelle nane gialle situate ai bordi di una galassia d’importanza mediocre designata arbitrariamente con il nome di Via Lattea». E all’inizio ci sarebbe una probabilità su centomila milioni di miliardi (ossia solamente 10 alla ventesima) che mi risponda: «Ah, sì, la Terra…»

Georges Perec, Pensare/Classificare, traduzione di Sergio Pautasso, Macerata, Quodlibet 2024, grazie a Paolo Nori.

Primo, secondo, terzo fuoco

Le argomentazioni di Stephen J. Pyne a favore del Pirocene iniziano proprio dal fuoco stesso, di cui distingue tre tipi. Il “primo fuoco” è quello che non richiede alcun intervento umano. È antico quanto le colline, o forse ancora di più: le prime tracce di fuoco sulla Terra provengono dal carbon fossile, la cui datazione le fa risalire al periodo del Siluriano, quando le piante stavano appena iniziando ad abbarbicarsi sulle terre emerse. Il secondo fuoco, nello schema di Pyne, è il tipo a cui gli umani danno inizio, o quanto meno controllano. Non è chiaro quando, esattamente, gli ominidi abbiano imparato a manipolare il fuoco, ma la scoperta potrebbe risalire a 1,5 milioni di anni fa. Il controllo del fuoco è stato un progresso talmente significativo che, secondo Pyne, ha modificato il corso dell’evoluzione. La cottura dei cibi ha permesso ai nostri antenati di dedicare meno tempo alla digestione e più tempo alla cognizione. Tali sviluppi hanno, a loro volta, fatto sì che gli esseri umani non potessero più vivere senza fiamme.
Il primo e il secondo fuoco sono entrambi basati sulla stessa fonte di combustibile: piante viventi, o in vita fino a poco tempo prima di essere bruciate. Per gran parte della storia umana questo è stato il limite alle possibilità di combustione. Poi le persone hanno capito come accedere all’antica biomassa sotto forma di carbone, petrolio e gas naturale. La combustione dei combustibili fossili ha prodotto il terzo fuoco, che ha alterato l’atmosfera e, di conseguenza, il clima. “Il fuoco ha creato le condizioni per ulteriori fuochi”, ha scritto Pyne.

Elizabeth Kolbert, The Perverse Policies That Fuel Wildfires, The New Yorker (25/3/2024), traduzione L.V. Nella foto (stephenpyne.com) Stephen J. Pyne.

Discende da un curioso quadrupede

La steppa eurasiatica è una vasta fascia erbosa che si estende dall’Ungheria alla Manciuria. Le sue dimensioni sono quasi impossibili da afferrare: un panorama tra il verde e il marrone chiaro, le cui estremità sono più distanti l’una dall’altra di quanto Anchorage lo è da Miami o Il Cairo da Johannesburg. Il suo significato storico discende da un curioso quadrupede che vive lì da circa centomila anni: il cavallo. Con le sue zampe lunghe, i polmoni potenti, i tendini elastici e un intestino capace di demolire l’erba coriacea, la creatura prospera nella steppa aperta. I cavalli erano ben attrezzati per resistere all’era glaciale, dato che i loro duri zoccoli erano in grado di aprire un varco nella neve e nel ghiaccio per far venire alla luce l’erba sottostante.
“Il cavallo è stato il mezzo di trasporto più efficiente e duraturo che gli esseri umani abbiano mai usato”, scrive Anthony Sattin, un giornalista britannico, in “Nomads”, “e la capacità di cavalcare un cavallo ha trasformato la vita sulla Terra, forse in nessun luogo più che nella steppa”. I cavalli erano già allevati in cattività nella steppa occidentale almeno cinquemila anni fa. La ruota fu inventata più o meno nello stesso periodo e la combinazione delle due innovazioni ha permesso alla pastorizia nomade di sbocciare.

Manvir Singh, The Mongol Hordes: They’re Just Like Us, The New Yorker (1-8/1/2024). Nella foto (Wikipedia) un esemplare di cavallo di Przewalski, comunemente noto anche come takhi, cavallo selvatico mongolo o cavallo dzungariano.

Alle frontiere estreme d’una genealogia vegetale

Anche la strada di mio padre portava lontano. Lui del mondo vedeva solo le piante e ciò che aveva attinenza con le piante, e di ogni pianta diceva ad alta voce il nome, nel latino assurdo dei botanici, e il luogo di provenienza – la sua passione era stata per tutta la sua vita quella di conoscere e acclimatare piante esotiche – e il nome volgare, se ce n’era uno, in spagnolo o in inglese o nel nostro dialetto, e in questo nominare le piante metteva la passione di dar fondo a un universo senza fine, di spingersi ogni volta alle frontiere estreme d’una genealogia vegetale, e da ogni ramo o foglia o nervatura aprirsi una via come fluviale, nella linfa, nella rete che copre la verde terra.

Italo Calvino, La strada di San Giovanni, Mondadori (2022). Nella foto (sanremo.it) Mario Calvino e alcuni lavoranti.

Le cause della schiavitù

Nel 1970 L’economista Evsej Domar, del M.I.T., aveva pubblicato un articolo, divenuto poi un classico, dal titolo “Le cause della schiavitù o della servitù della gleba: un’ipotesi”. L’articolo iniziava con un’osservazione storica che aveva probabilmente sorpreso la maggior parte dei lettori. Tutti sapevano che la Russia zarista era una nazione in cui i servi erano legati alla terra. Si era però scoperto che la servitù della gleba russa non era un’istituzione antica che persisteva fin dal profondo Medioevo. Era stata, piuttosto, introdotta tra il Seicento e il Settecento, dopo che la polvere da sparo aveva finalmente dato ai soldati contadini il sopravvento militare sulle popolazioni nomadi di arcieri a cavallo, consentendo all’Impero russo di espandersi in vasti e fertili nuovi territori.
Come aveva sottolineato Domar, non c’è motivo di asservire o schiavizzare un lavoratore (non esattamente la stessa cosa, ma trascuriamo pure questa differenza) se la forza lavoro è abbondante e la terra è scarsa, perché un lavoratore, scappando, guadagnerebbe poco più del valore della sussistenza. Ma se la terra diventa abbondante e la manodopera scarsa, la classe dominante vorrà immobilizzare i lavoratori in modo da poter ricavare forzatamente la differenza tra il valore di ciò che essi possono produrre – in senso stretto, il loro prodotto marginale – e il costo per mantenerli in vita.
Ecco dunque spiegata sia la crescita della servitù della gleba con l’espansione della Russia verso est, sia la crescita della schiavitù con la colonizzazione del Nuovo Mondo da parte degli europei.

Paul Krugman, What the Civil War Was About, The New York Times (2/1/2024), traduzione L.V. Nella foto (Archivio storico delle economiste e degli economisti) Evsej Domar.

Impossibile cominciare la vita senza essere prevenuto

Sono venuto al mondo nel giorno dei defunti per una coincidenza che rimarrà sempre scandalosa, in ritardo di ventiquattro ore forse sulla festività dei Santi. Impossibile cominciare la vita senza essere prevenuto. Non mi si accusi mai, in ogni modo, di mal volere. Quella data mi si è attaccata per la vita come un cattivo indizio. Novembre è un mese a basso regime nella Padana. Nelle strade che son canali di nebbia da coltello si può essere investiti da un volgare ciclista senza onore. Le ferrovie camminano cieche a tastoni sparando petardi. Lo spazio fra terra e cielo si arresta a un limite di nebbia plumbea che par che non si debba più smuovere da lì. Ci si dimentica di cercare il cielo e la vita dell’animale terreno si orienta verso la terra. È allora che i porci sguinzagliati fiutano il tartufo nelle terre grasse e umide a filo dei torrenti sotto i boschi immobili e il vento ha sempre odore d’acqua piovana.

Luchino Visconti, citato in una nota di Giovanni Agosti in Giovanni Testori, Luchino, a cura di Giovanni Agosti, Feltrinelli (2022). Nella foto (Wikipedia) Luchino Visconti sul set di Anna Bolena al Teatro alla Scala (1957).

È tuttora prospero

Per il Tyrannosaurus rex, come per Elvis e Gesù, il fatto di essere estremamente morto non si è rivelato un ostacolo alla continua fama. Visto l’ultima volta circa sessantasei milioni di anni fa, prima che un asteroide spazzasse via tre quarti delle forme di vita sulla Terra, è tuttora prospero grazie soprattutto a Michael Crichton, Steven Spielberg e ai bambini delle scuole elementari di tutto il mondo. Nella mia esperienza questi bambini non solo sono capaci di snocciolare i dati fisici del dinosauro – quattro metri e mezzo di altezza, dodici di lunghezza, oltre cinque tonnellate di peso – ma con zelo possono correggere qualsiasi informazione errata forniscano i loro decani paleontologicamente superati. La cosa però più sorprendente è che tutti quei bambini attorno ai dieci anni di età, insieme a praticamente tutti gli altri abitanti umani del pianeta, conoscono il il nome scientifico proprio della creatura, T. rex.

Kathryn Schulz, How Carl Linnaeus Set Out to Label All of Life, The New Yorker (21/8/2023), traduzione L.V. Nella foto uno scheletro di Tyrannosaurus rex esposto al Museo nazionale di storia naturale di New York.