Si potrebbe parafrasare gran parte dell’opera di Beethoven nello spirito di Gramsci

La Nona sinfonia è una delle opere d’arte più importanti della cultura occidentale. Alcuni esperti la definiscono la più grande sinfonia mai scritta e molti commentatori ne lodano il messaggio visionario. È anche una delle opere più rivoluzionarie di un compositore caratterizzato proprio dalla natura rivoluzionaria delle sue opere. Beethoven ha liberato la musica dalle convenzioni prevalenti di armonia e struttura. A volte nei suoi ultimi lavori sento la volontà di rompere ogni segno di continuità.
Il filosofo italiano Antonio Gramsci aveva detto una cosa meravigliosa nel 1929, quando Benito Mussolini teneva in scacco l’Italia. “Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista con la volontà”, aveva scritto a un amico dal carcere. Penso che intendesse dire che finché siamo vivi, abbiamo speranza. Cerco di fare ancora oggi tesoro delle parole di Gramsci, anche se non sempre con successo.
A detta di tutti Beethoven era coraggioso, e trovo che il coraggio sia una qualità essenziale per la comprensione, per non parlare dell’esecuzione, della Nona. Si potrebbe parafrasare gran parte dell’opera di Beethoven nello spirito di Gramsci dicendo che la sofferenza è inevitabile, ma che il coraggio di superare tale sofferenza rende la vita degna di essere vissuta.

Daniel Barenboim, What Beethoven’s Ninth Teaches Us, The New York Times (6/5/2024), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) Antonio Gramsci.

L’ultimo suono umano

In un pomeriggio degli anni Ottanta, un uomo con un tatuaggio sul braccio, il segno identificativo di un prigioniero dei campi di concentramento, era arrivato con un violino malconcio, che era come lui sopravvissuto ad Auschwitz.
“La parte superiore del violino era danneggiata poiché era stato suonato sotto la pioggia e la neve”, ha scritto James A. Grymes in “Violins of Hope: Violins of the Holocaust – Instruments of Hope and Liberation in Mankind’s Darkest Hour” (2014). “Quando Amnon Weinstein ha smontato lo strumento, ha trovato della cenere all’interno che, poteva solo supporre, vi fosse forse caduta dentro dai crematori di Auschwitz”.
Weinstein, che nell’Olocausto aveva perso centinaia di membri della sua famiglia allargata, quasi allontanò quell’uomo; lavorare su uno strumento del genere gli sembrava troppo difficile emotivamente. Ma alla fine riparò il violino e l’uomo lo diede a suo nipote perché lo suonasse.
Amnon Weinstein non aveva riflettuto molto sull’idea di lavorare su violini dell’epoca dell’Olocausto fino alla fine degli anni Novanta, quando stava insegnando a suo figlio a diventare liutaio. L’esperienza lo aveva portato a riflettere sul ruolo dei violini nella cultura ebraica, dagli shtetl dell’Europa orientale alle bande klezmer fino ai sublimi concerti di Itzhak Perlman.
“Per le giovani generazioni era un obbligo imparare a suonare il violino”, aveva detto in un documentario della PBS. “E quando uno aveva un violino, il venerdì o il sabato sera, c’era sempre qualcuno che lo prendeva e si metteva a suonarlo”.
In un’intervista radiofonica aveva chiesto agli ascoltatori di portargli strumenti legati all’Olocausto. Ben presto alcune famiglie avevano iniziato a presentarsi nel suo laboratorio, con violini che erano stati conservati in soffitte e cantine, ognuno con la propria storia tormentata.
Amnon Weinstein era rimasto particolarmente toccato dai violini recuperati dai campi di concentramento dopo l’invasione della Germania da parte degli Alleati, nel 1945.
“Quei violini hanno prodotto l’ultimo suono umano che tutte quelle persone hanno sentito”, aveva detto in un’intervista radiofonica del 2016 per la WKSU in Ohio. “Non si può parlare di bellezza. Ma questi violini sono stati la bellezza di quel tempo”.

Michael S. Rosenwald, Amnon Weinstein, Who Restored Violins From the Holocaust, Dies at 84, The New York Times (21/3/2024), traduzione L.V. Nella foto (Violins of Hope) Amnon Weinstein con uno dei violini sooravvissuti all’Olocausto e da lui restaurati.

Il solo segno, ma bisogna saperlo

Uccidere manualmente richiede tempo, si ordinano scatole di gas Zyklon. Niente distingueva la camera a gas da un blocco normale. All’interno una finta sala docce accoglieva i nuovi arrivati. Si chiudevano le porte, si osservava. Il solo segno, ma bisogna saperlo, è questo soffitto arato dalle unghie. Perfino il cemento si lacerava.

Alain Resnais, Nuit et brouillard, testo di Jean Cayrol (Francia, 1956). Nella foto (Wikipedia) una camera a gas del campo di concentramento nazista di Majdanek.

L’inconfondibile firma virale di un herpesvirus

La scoperta del virus non è stata rapida. Il dottor Burkitt aveva inviato alcune biopsie tumorali a Londra da Kampala, in Uganda, ma in questi primi campioni il dottor Epstein non era riuscito a trovare tracce virali, secondo Darryl Hill, il ricercatore che ha commemorato il dottor Epstein in un articolo per l’Università di Bristol.
Un nuovo pacco contenente biopsie era stato spedito e quindi dirottato dall’aeroporto di Heathrow a un altro aeroporto, a Manchester, in Inghilterra, a causa della nebbia. I campioni al suo interno sembravano essersi deteriorati, aveva detto il dottor Hill.
“Quando i campioni arrivarono finalmente nelle mani di Tony, erano diventati torbidi, generalmente un segno di contaminazione batterica per cui avrebbero dovuto essere buttati via”, ha scritto il dottor Hill nel suo tributo. “Tony però non li buttò via e li esaminò attentamente”. “Con sua sorpresa scoprì che l’opacità era dovuta alle cellule tumorali linfoidi che, durante il trasporto, si erano staccate dalla biopsia e ora galleggiavano allegramente in sospensione”. Il dottor Hill ha proseguito nel racconto: “Tony aveva sfruttato quella scoperta casuale per far crescere in coltura alcune linee cellulari, derivate dal tumore, dimostrando che erano in grado di rimanere in vita indefinitamente”.
Studiando i nuovi campioni con un potente microscopio elettronico, il dottor Epstein era stato in grado di individuarvi l’inconfondibile firma virale di un herpesvirus. Il dottor Hill ha definito la scoperta un momento “eureka”.
Il dottor Epstein, la dottoressa Barr e il dottor Bert Achong, che aveva preparato i campioni per la microscopia elettronica, annunciarono la loro scoperta in un articolo scientifico pubblicato sul numero di marzo 1964 della rivista scientifica The Lancet.

Delthia Ricks, Dr. Anthony Epstein, Pathologist Who Discovered Epstein-Barr Virus, Dies at 102, The New York Times (6/3/2024). Nella foto (European Association for Haematopathology) la fotografia del campione di cellule di linfoma di Burkitt osservate al microscopio elettronico, in cui si vede la presenza dell’herpesvirus che poi prenderà il nome di virus di Epstein-Barr (EBV). La fotografia è stata pubblicata in un articolo sul numero di marzo 1964 della rivista scientifica The Lancet.

Come gocce di vivo turchese

Intanto il giovane si godeva il paesaggio. Appena lasciata la carovaniera era diventato come navigare, non in “alto mare”, ma in “alto deserto”. Ogni segno umano era completamente sparito. Certi montagnoni aridi, possenti, color crete senesi, si facevano sempre più eminenti e vicini. Erano loro i padroni esclusivi dell’orizzonte. Ma non pensiamoli vuoti, morti, opprimenti! Intanto a rallegrarli qua e là, come gocce di vivo turchese, apparivano i sorprendenti e preziosi papaveri azzurri del Tibet: sembra impossibile, ma questi fiori delicati, d’una tinta da genziana, amano proprio simili luoghi aridi e solitari.

Fosco Maraini, Case, amori, universi, La nave di Teseo (2019). Nella foto (Wikipedia) un papavero blu dell’Himalaya.

Iniziamo a darne qualche segno

Come mi ha detto Russ Mittermeier, Chief Conservation Officer del Global Wildlife Conservation: “Ci meravigliamo quando un veicolo spaziale atterra su Marte alla ricerca di minuscole tracce di vita che forse neppure esistono”. Allo stesso tempo, qui sulla Terra, “continuiamo a distruggere e degradare ecosistemi straordinariamente diversi, come le foreste tropicali e le barriere coralline” che ci danno sostentamento e ricchezza.
Fermare queste attività è l’unico vaccino veramente sostenibile contro la prossima pandemia. In altre parole, è ora che smettiamo di cercare la vita intelligente su Marte e che iniziamo a darne qualche segno qui sul pianeta Terra.

Thomas L. Friedman, One Year Later, We Still Have No Plan to Prevent the Next Pandemic, The New York Times (16/3/2021), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) Russell Mittermeier.