Ideali per le rapide annotazioni dei piloti

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Al civico 60 di corso Re Umberto a Torino una lapide ricorda la casa dove nacque colui che «semplificò la quotidianità della scrittura». Il signore in questione è Marcel Bich, nato nella città piemontese nel 1914 e in seguito trasferitosi con la famiglia in Francia. Qui, nel secondo dopoguerra, acquisto e perfezionò il brevetto dell’inventore ungherese Bíró, sulla base del quale avviò la produzione industriale di quella che sarebbe diventata probabilmente lo strumento di scrittura più comune e diffuso nel mondo: la penna Bic. Laszló Jozsef Bíró ideò infatti la penna che porta il suo nome e che garantiva maggiore autonomia della penna stilografica, e soprattutto non dipendeva da frequenti operazioni di ricarica. La penna di Bíró trovò subito un acquirente nella Royal Air Force britannica. Le penne a inchiostro erano infatti inadatte per il volo perché spandevano facilmente, mentre le nuove penne a sfera – denominate dalla Raf Eterpen -erano ideali per le rapide annotazioni dei piloti. L’inventore ungherese non fu però in grado di raggiungere mercati più ampi, cosa che invece riuscì a Bich, grazie anche alle migliorie apportate tra le quali quella dell’involucro trasparente che consentiva di controllare in qualsiasi momento la quantità residua di inchiostro.

Piero Martin, Le 7 misure del mondo, Laterza (2021). Nella foto la targa in memoria della nascita di Marcel Bich (1914-1994), in corso Re Umberto 60 a Torino.

L’état, c’est moi

Ci sono pochi precedenti che un civile possa diventare, in modo così granulare, l’arbitro di una guerra tra nazioni, o del livello di dipendenza che gli Stati Uniti hanno oggi da Elon Musk in ambiti molto vari, dal futuro dell’energia e dei trasporti all’esplorazione dello spazio. SpaceX è attualmente l’unico mezzo con cui la NASA trasporta gli equipaggi dal suolo americano nello spazio, una situazione che persisterà almeno per un altro anno. Il piano del governo di spingere l’industria automobilistica verso le auto elettriche richiede un più ampio accesso alle stazioni di ricarica lungo le autostrade americane. Ma questo dipende dalle azioni di un’altra impresa di Musk, la Tesla. La casa automobilistica ha talmente disseminato le proprie stazioni di ricarica in tutto il Paese che l’amministrazione Biden ha allentato la spinta iniziale verso uno standard di ricarica universale non gradito a Musk. Le sue stazioni hanno diritto a ricevere sussidi per miliardi di dollari, a condizione che la Tesla le renda compatibili con gli altri standard di ricarica.
Negli ultimi vent’anni, in un contesto di infrastrutture fatiscenti e di calo di fiducia nelle istituzioni, Musk ha cercato opportunità di business in aree cruciali dove, dopo decenni di privatizzazioni, lo Stato è ormai in ritirata. Il governo oggi fa affidamento su di lui, ma fatica a rispondere alla sua propensione al rischio, alle sue pressioni psicologiche calcolate per cercare di ottenere risultati vantaggiosi e alla sua imprevedibilità. Alcuni ex funzionari o funzionari attualmente in servizio presso la NASA, il Dipartimento della Difesa, il Dipartimento dei Trasporti, la Federal Aviation Administration e l’Occupational Safety and Health Administration mi hanno detto che l’influenza di Musk è diventata inevitabile nel loro lavoro, e molti hanno affermato di trattarlo come una sorta di funzionario non eletto. Un portavoce del Pentagono ha detto che stava tenendo Musk informato sulle mie domande sul suo ruolo nella guerra in Ucraina e che su tale questione mi avrebbe concesso un’intervista con un funzionario soltanto dopo avere ottenuto il permesso di Musk. “Ti parleremo se Elon lo vorrà”, mi ha detto. In un’intervista per un podcast, lo scorso anno, a Musk era stato chiesto se avesse più influenza del governo americano. Aveva risposto immediatamente: “In un certo senso”. Reid Hoffman mi ha detto che l’atteggiamento di Musk è “come quello di Luigi XIV: ‘L’état, c’est moi’”.

Ronan Farrow, Elon Musk’s Shadow Rule, The New Yorker (28/8/2023), traduzione L.V.

Il selvaggio West della micromobilità

Dal punto di vista commerciale non esiste ancora un modo affidabile per riciclare le batterie agli ioni di litio, e ciò rappresenta un enorme caveat per la sostenibilità generale dei veicoli elettrici. Tutti i monopattini vecchi o superati finiscono nelle discariche, come è del resto già accaduto alle biciclette condivise, ben accolte e ampiamente adottate in Cina dall’inizio dell’ultimo decennio, quindi improvvisamente eliminate in molti luoghi del mondo, con conseguenti fotografie scioccanti di enormi siti di “sepoltura” delle biciclette stesse. Ai costi ambientali delle batterie e dei monopattini eliminati si aggiungono le emissioni prodotte dai camion e dai furgoni che portano i monopattini nelle stazioni di ricarica o, in alcuni casi, nelle case dei lavoratori a cottimo. Su questioni importanti, come le condizioni di lavoro e la sostenibilità, il selvaggio West della micromobilità resta instabile, anche se gli inizi turbolenti hanno ceduto il passo al corteggiamento, da parte delle aziende, degli enti regolatori come il Dipartimento dei trasporti di New York.

John Seabrook, The E-Scooters Loved by Silicon Valley Roll Into New York, The New Yorker (26/4 – 3/5/21), traduzione L.V.

Non si poteva far sedere la gente su un’esplosione

1910_Waverley_CoupeLe auto elettriche di inizio secolo erano più manovrabili rispetto alle loro controparti a benzina. Avevano un’accelerazione più veloce, una migliore frenata e una coppia potente, che compensava il peso delle batterie. Stabilirono record di velocità – nel 1902 un’auto elettrica raggiunse brevemente la stupefacente velocità di 164 chilometri orari – e, a differenza dei veicoli a combustione interna, non scoppiettavano nel traffico e non dovevano essere riavviate nel mezzo della strada. È vero, dovevano essere ricaricate all’incirca ogni sessanta chilometri, più o meno la distanza da Mount Vernon alla stazione Grand Central e ritorno, ma all’epoca pochi automobilisti con motori a scoppio viaggiavano molto più lontano. L’energia elettrica era la tecnologia avveniristica dell’epoca, silenziosa, futuristica e all’avanguardia dell’ingegnosità umana. Quando Albert A. Pope, a capo della società di biciclette Columbia, entrò nel settore automobilistico, nel 1896, investì nelle auto elettriche. Spiegò che “non si poteva far sedere la gente su un’esplosione”.

Nathan Heller, Was the Automotive Era a Terrible Mistake?, The New Yorker (29/7/19), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) una pubblicità dell’auto elettrica Waverley sul Saturday Evening Post, 1910.