Questa combinazione di immortalità e replicabilità

Se rimanesse un’attività di ricerca scientifica, un’A.I. mortale potrebbe portarci più vicini a una replica del nostro cervello. Ma Hinton è arrivato a pensare, con rammarico, che l’intelligenza digitale potrebbe essere più potente. Nell’intelligenza analogica, “se il cervello muore, muore anche la conoscenza”, ha detto. Nell’intelligenza digitale, invece, “se un particolare computer muore, le forze delle sue connessioni possono essere utilizzate su qualsiasi altro computer. E anche se dovessero morire tutti i computer, una volta immagazzinate da qualche parte tutte le forze delle connessioni, basterebbe creare un altro computer digitale ed eseguirle. Diecimila reti neurali possono imparare diecimila cose diverse contemporaneamente, e poi condividere ciò che hanno imparato”. Secondo Hinton, questa combinazione di immortalità e replicabilità ci dice che “dovremmo preoccuparci che l’intelligenza digitale prenda il posto dell’intelligenza biologica”.

Joshua Rothman, Why the Godfather of A.I. Fears What He’s Built, The New Yorker (20/11/2023), traduzione L.V. Nel disegno (Wikipedia) un’immagine simbolica dell’intelligenza artificiale.

Una promessa di non vendicarsi

Il perdono, per Potts, non è uno scambio – il perdono concesso in cambio dell’opportunità di assistere a uno spettacolo di umiliazione e autodenigrazione – ma una promessa di non vendicarsi. Domandare delle scuse in cambio del perdono non può mai guarire una ferita o rendere giustizia; è piuttosto una forma di piacere consumata da persone che godono nell’assistere alla sofferenza di coloro che sono in loro potere (anche se solo brevemente). Non esistono scuse mancate, ma solo un abuso di potere, perché ogni perdono, scrive Potts, “inizia e finisce con un fallimento”. Non redime né può riscattare o annullare il dolore o la perdita; può soltanto domandare la necessaria attenzione al dolore e alla perdita, come una resa dei conti, o un atto di cordoglio. Il perdono è, quindi, una sorta di lutto, una specie di rammarico.

Jill Lepore, The Case Against the Twitter Apology, The New Yorker (7/11/2022), traduzione L.V. Nella foto (Harvard University) Matthew Ichihashi Potts.

E me ne andai garbatamente a scuola

Sognavo il luccio di sette chili. L’avevo visto davvero – radente, inclinato – sotto riva?
Una volta nascosi il bottino in un cesto a tracolla, fra panni inzuppati, tornando a Milano con papà. Sapevo che le carpe potevano resistere a lungo fuor d’acqua e la linfa vitale del laghetto sarebbe bastata a raggiungere via Brera. Salito al mio abbaino, le liberai nella vasca da bagno, tutte vive e sgargianti. Era come portare una parte di selva in città: mille guizzi di squame segrete, che nessuno doveva trovare. La mattina chiusi a chiave da fuori la porta del bagno e me ne andai garbatamente a scuola, come se nulla fosse frattanto accaduto. Stringevo in tasca, nell’aula, quella liquida chiave, meditando più ampia dimora per le ospiti d’oro e d’argento. Tornato a casa, trovai la mamma insospettita, inquieta e poi subito dopo sdegnata, furiosa al selvaggio spettacolo della vasca da bagno, imbrattata dal limoso intestino delle carpe. Fui costretto a comprare un immenso catino grigio scuro e a riporlo nel sottotetto del guardaroba, quasi al buio. Ma l’altezza delle sponde non bastava alle mie atlete, che ogni tanto balzavano fuori, come belve da circo, suscitando fra gli amici nuovo orrore e più acuto sgomento. Puntavo la sveglia nella notte, per controllarne le peripezie. Ed era tanto il rammarico per quell’angustia, che mi persuasi a porre presto il migliore rimedio. Le raccolsi in un buon bidone, colmo a metà, e ritornai nel fine settimana alla Capanna.

T’è vist: la mia bestiöra? Cósa t’avevi ditt? Crapa düra!

Lente, incredule, indugiavano a riva, ridonando la linfa alle branchie. Qualche dorso lucente, per un poco esitò. Poi scomparvero tutte sul fondo.

Niccolò Reverdini, Anche l’usignolo, Mondadori (2021)

Dovette staccarlo dal gancio da sola

2020_03_30Nel 1665 gli irrequieti fuggirono in campagna, e lo stesso fecero i saggi, e quelli che indugiarono ebbero di che rammaricarsi: quando decisero di andarsene, “non c’era quasi più un cavallo da comprare o noleggiare in tutta la città”, raccontò Defoe, e comunque le porte erano state chiuse e tutti erano intrappolati. Tutti si comportarono male, ma i ricchi peggio: non avendo ascoltato gli avvertimenti sulle provviste,  mandarono i loro poveri servitori a cercare rifornimenti. “Questa necessità di uscire dalle nostre case per acquistare provviste fu in larga misura la rovina di tutta la città”, scrisse Defoe. Uno londinese su cinque morì, nonostante le precauzioni prese dai commercianti. Il macellaio si rifiutò di consegnare a una cuoca un taglio di carne; dovette staccarlo dal gancio da sola. E lui non voleva toccare i suoi soldi; lei avrebbe dovuto gettare le monete in un secchio pieno di aceto. Tenetelo a mente quando terminate il vostro gel igienizzante per le mani.

Jill Lepore, What Our Contagion Fables Are Really About, The New Yorker (23/3/2020), traduzione L.V.