La Terra ci chiede qualcosa di più della gratitudine

Come scienziati ci siamo chiesti: perché? Perché esseri solitari e reclusi devono lottare per arrampicarsi su un promontorio roccioso ed entrare in una comunità di un centinaio di esseri umani? Perché tutte queste tartarughe sono venute da noi, in numeri senza precedenti, per fare la cosa più importante per loro? Quando i nostri studenti sono andati alla ricerca di siti adatti a trasferire al sicuro le molteplici uova che avevano deposto non solo nell’ultimo anno, hanno trovato una risposta. Le lingue di sabbia preferite dalle tartarughe erano sott’acqua a causa di piogge più intense del solito. Quando il livello del lago si è alzato, hanno dovuto cercare un terreno più in alto. Ho avuto l’impressione che le tartarughe azzannatrici fossero diventate rifugiati climatici.
E questo è il pensiero che non mi da pace.
Penso che le tartarughe si siano dirette verso l’alto in preda a una sorta di disperazione, come chiedendoci di prestare attenzione, per farci vedere che stiamo vacillando sull’orlo della catastrofe climatica con i nostri parenti, animali e vegetali, che scompaiono a ondate dopo ondate di estinzioni. La scienza, armata di modelli con cui prevedere gli imminenti cambiamenti, è un potente strumento per affrontare queste crisi. Ma non è l’unico. Come scienziato sento dati indiscutibili, e anche un messaggio, allo stesso tempo materiale e spirituale, portato dalle tartarughe azzannatrici: la Terra ci chiede qualcosa di più della gratitudine.

Robin Wall Kimmerer, The Turtle Mothers Have Come Ashore to Ask About an Unpaid Debt, The New York Times (22/9/2023), traduzione L.V.

Arrivarono così a Cuba alcuni sfortunati artisti savoiardi

A quel tempo l’isola di Cuba era un abisso assonnato che inghiottiva soldati; e siccome i volontari che si arruolavano per il servizio d’oltremare erano sempre più insufficienti, gli ufficiali che reclutavano nella Penisola ricorrevano a ogni genere di stratagemmi, anche i più ripugnanti ed infami. A tal fine, gli agenti del reclutamento non si facevano scrupolo dal frequentare le case da gioco e le osterie, e quando un opportuno stato di ebbrezza era stato raggiunto, arruolavano non solo tutti i vagabondi e i degenerati, ma anche i giovani stranieri che cadevano nelle loro grinfie. Arrivarono così a Cuba alcuni sfortunati artisti savoiardi, che all’epoca vagavano per la Spagna cantando l’inno di Garibaldi accompagnandosi con l’arpa.
Uno di questi disgraziati italiani approdò nell’infermeria di San Isidro. Soffriva di epatite e idropisia, e inoltre il suo volto itterico mostrava l’impronta indelebile della malaria cronica. Non so come avesse fatto, durante i suoi sfortunati vagabondaggi per l’isola, a custodire il suo prezioso strumento musicale, accanto al quale dormiva in infermeria, timoroso che gli fosse portato via. Questo soldato musicale era un tipo cortese e di buon carattere, e quando la febbre lo abbandonava, ci intratteneva con concerti all’aperto. Con la sua accoglienza aveva guadagnato non solo la nostra gratitudine, ma anche alcuni pesos che teneva da parte in vista del sospirato rimpatrio.
Mi sembra di vederlo ancora al chiaro di luna, il viso giallo, l’espressione abbattuta e triste, e il ventre idropico, un tocco morboso che gli dava un aspetto tragicamente grottesco. Posto al centro del gruppo di ascoltatori, con il corpo appoggiato al tronco di un albero, produceva con precisione e sentimento romanze di Rossini e Donizetti, canti napoletani e arie della Savoia soffuse di dolce malinconia, che la nostra fame di musica trasformava in qualcosa di sublime.

Santiago Ramón y Cajal, Recollections of my life, traduzione dallo spagnolo all’inglese di E. Horne Craigie e Juan Cano, MIT Press (1989), traduzione L.V. Nella foto (Cuba Periodistas), a destra, Ramón y Cajal nella divisa di ufficiale medico dell’esercito spagnolo, usata a Cuba. A sinistra, una foto del forte e dell’ospedale di San Isidro, nella regione di Puerto Príncipe, ora Camagüey, dove Ramón y Cajal prestò servizio per un anno durante la Guerra dei dieci anni.

È stata concessa una proroga

c115ddbff97020af0b670ded0611da75_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyNella vita di ognuno esistono momenti – quando la porta sbattuta all’improvviso e senza alcun visibile motivo si riapre, quando lo spioncino chiuso un attimo viene di nuovo aperto, quando un brusco «no» che sembrava irrevocabile si muta in «forse» -, momenti in cui il mondo intorno a noi si trasfigura, e noi stessi ci riempiamo di speranza come di nuovo sangue. È stata concessa una proroga a qualcosa di ineluttabile, definitivo; il verdetto del giudice, del dottore, del console, è stato rinviato. Una voce ci avverte che non tutto è perduto. E con gambe tremanti e lacrime di gratitudine passiamo nel locale adiacente, dove ci pregano di «aspettare un poco» prima di spingerci nel baratro.

Nina Berberova, Il giunco mormorante, Adelphi (1990)