In un’altalena di licenziamenti e riassunzioni

Vivaldi prestò servizio alla Pietà sia come maestro di violino (e molti altri strumenti) che come compositore, lungo tutto l’arco della sua vita, fino al 1740, pur in un’altalena di licenziamenti e riassunzioni. La prassi voleva infatti che ogni anno i maestri venissero riconfermati con una votazione (ballottazione) fra i governatori; la precarietà di questo servizio discendeva da un imperativo di ferreo risparmio: un maestro non serviva più non appena le «figlie» fossero state messe in grado di fare da sole. La complessa e funzionale gerarchia interna delle «figlie» consentiva una costante e omogena trasmissione del sapere musicale dalle più grandi alle più piccole, dalle più istruite alle principianti. Tuttavia, per quanto ben congegnato, questo meccanismo non poteva prescindere dall’apporto esterno dei maestri: dopo qualche anno essi dovevano esser riassunti, non appena il livello qualitativo delle esecuzioni del «coro» cominciava a deteriorarsi.

Federico Maria Sardelli, Il volto di Vivaldi, Sellerio (2021)

Mi han chiesto perché ero grassa e se ero ancora vergine


Con Graziella tornai alla mia casa di un tempo perché non sapevo dove andare e lì, brutte e stracciate come eravamo, mi ricordo il portinaio che ci respinse, “Via via le zingare”. Non mi aveva riconosciuto, allora io lo supplicai e gli dissi, “Antonio”, io mi ricordavo che si chiamava Antonio, “sono Liliana Segre, che abitavo al terzo piano, e lui, tutto esterrefatto, chiamò giù gli inquilini, quelli che non ci avevano più guardato e quelli che invece ci avevano guardato.
E così fu la famiglia Gatta, che stava al primo piano e aveva due figlie con le quali giocavo in cortile. Mi portarono a casa loro, dove feci il bagno dopo tanto tempo, mi rivestii di vestiti delle figlie.
E incontrai dopo poco i miei zii che erano sopravvissuti e i miei nonni materni che si erano salvati a Roma in un convento, che vennero.
E il loro disgusto nei miei confronti fu così terribile, perché mi avevano lasciato la ragazzina della fotografia del maggio-giugno ’43 e ritrovavano due anni e mezzo dopo questa rozza, selvaggia, grassa, brutta, che diceva parolacce e non sapeva più stare a tavola.
E fu così tremendo vedere che loro che mi volevano bene e che erano persone buone, con le quali poi ho vissuto finché non mi sono sposata, che non riuscivano al momento a celare la loro delusione e mi dissero, ma come mai sei grassa? E io dico, ma di tante cose che mi possono chiedere, un mondo che mi potevano chiedere, mi han chiesto perché ero grassa e se ero ancora vergine.

Liliana Segre, Binario 21, con Fabio Fazio, Rai Uno (27/1/2023). Nella foto (Wikipedia) Liliana Segre nel 1948.

E s’appiatta la piazza razza

Come all’opera lenti si spengono i lumi,
così a notte le cupole calano come meduse di volume,
così si stringe, avvitandosi, la calle anguilla,
e s’appiatta la piazza razza.
E coglie pettini caduti da capelli
cotonati di donna per le proprie figlie
Nereo, ma lascia intatte tutte le perle gialle
dei lampioni stradali.

Iosif Brodskij, Strofe veneziane (I), in La forma del tempo, a cura di Matteo Campagnoli, RCS (2012)

Caro Jock

La calligrafia di Iris Origo era notoriamente illeggibile. Quando i familiari, gli amici e gli editor disperavano di decifrare le sue lettere, i manoscritti o gli appunti, venivano chiamati gli esperti. Tra questi, le figlie Benedetta e Donata, la sua pazientissima segretaria e il suo editore e caro amico Jock Murray. Quest’ultimo sosteneva di aver imparato una tecnica speciale per leggere la calligrafia di Iris Origo. Murray amava ripetere la storia di come, al suo ritorno in ufficio dopo una giornata a Manchester, avesse trovato l’intera redazione intenta a leggere una lunga lettera di Iris. Tutto era stato – più o meno – decifrato tranne l’ultima frase. Murray portò a casa la lettera con sé. “Il trucco”, aveva detto, “era di tenere la pagina all’altezza degli occhi, così dopo avere fatto un bagno e un sospirone alla Osbert [Lancaster], mi sono accucciato davanti al tavolo, a quattro zampe. C’era scritto: ‘Carissimo Jock, non riesco a leggere quello che ho scritto. Per favore, battilo a macchina e mandamene una copia.'”

Iris Origo, A chill in the air, Pushkin Press (2017), postfazione di Katia Lysy, traduzione L.V.

Un’attrice di rara bruttezza

casanovafellini1L’ansia di incontri sempre nuovi agita la sua immaginazione. Egli li cerca ovunque: a un ballo di corte, per strada, in una locanda, a teatro, in un postribolo. Passa con disinvoltura da una città all’altra senza calcoli, senza un piano. Il suo percorso viene deciso da un paio di begli occhi che l’hanno fissato un istante più del dovuto. E per un paio di begli occhi egli è capace di travestirsi da servitore di locanda, di dare banchetti, di recitare La scozzese di Voltaire e di mettere radici in una minuscola cittadina svizzera. In un breve arco di tempo riesce ad amare un’aristocratica del gran mondo, le figlie di un oste, la monaca di un monastero di provincia, una colta fanciulla abile nelle dispute teologiche, le inservienti dei bagni bernesi, la seria e graziosa Dubois, un’attrice di rara bruttezza e, dulcis in fundo, persino l’amica gobba di quest’ultima.

Pavel Muratov, Immagini dell’Italia – vol. I, traduzione di Alessandro Romano, Adelphi (2019). Nella foto (viene da qui) Federico Fellini e Donald Sutherland durante le riprese di “Il Casanova” (1977).