La Terra ci chiede qualcosa di più della gratitudine

Come scienziati ci siamo chiesti: perché? Perché esseri solitari e reclusi devono lottare per arrampicarsi su un promontorio roccioso ed entrare in una comunità di un centinaio di esseri umani? Perché tutte queste tartarughe sono venute da noi, in numeri senza precedenti, per fare la cosa più importante per loro? Quando i nostri studenti sono andati alla ricerca di siti adatti a trasferire al sicuro le molteplici uova che avevano deposto non solo nell’ultimo anno, hanno trovato una risposta. Le lingue di sabbia preferite dalle tartarughe erano sott’acqua a causa di piogge più intense del solito. Quando il livello del lago si è alzato, hanno dovuto cercare un terreno più in alto. Ho avuto l’impressione che le tartarughe azzannatrici fossero diventate rifugiati climatici.
E questo è il pensiero che non mi da pace.
Penso che le tartarughe si siano dirette verso l’alto in preda a una sorta di disperazione, come chiedendoci di prestare attenzione, per farci vedere che stiamo vacillando sull’orlo della catastrofe climatica con i nostri parenti, animali e vegetali, che scompaiono a ondate dopo ondate di estinzioni. La scienza, armata di modelli con cui prevedere gli imminenti cambiamenti, è un potente strumento per affrontare queste crisi. Ma non è l’unico. Come scienziato sento dati indiscutibili, e anche un messaggio, allo stesso tempo materiale e spirituale, portato dalle tartarughe azzannatrici: la Terra ci chiede qualcosa di più della gratitudine.

Robin Wall Kimmerer, The Turtle Mothers Have Come Ashore to Ask About an Unpaid Debt, The New York Times (22/9/2023), traduzione L.V.

Erano stati portati dentro il cuore del sionismo

Mentre il sionismo della prima ora esaltava pionieri muscolosi e autosufficienti in una terra nuova, vuota e promessa, quell’immagine non era invecchiata bene nel mondo del dopoguerra. Molti ebrei israeliani avevano disprezzato gli ebrei della “vecchia Europa”, vedendoli tremanti nei loro shtetl e incamminati, impotenti, verso la morte. Naturalmente avevano provato dolore e disperazione per l’Olocausto e i loro diplomatici ne avevano utilizzato la memoria per convincere le Nazioni Unite a riconoscere lo Stato di Israele. Tuttavia un’ombra di vergogna era calata sui sopravvissuti, molti dei quali erano talmente traumatizzati da essere disfunzionali.
Quando durante il processo i testimoni avevano cominciato a parlare di crimini e sofferenze inauditi, l’atteggiamento israeliano era cambiato. I sopravvissuti ai nazisti – prima visti come stranieri tatuati, che borbottavano tra sé agli angoli delle strade di Tel Aviv – iniziarono a essere guardati con maggiore compassione. Le loro morti e sofferenze, i crimini della Shoah, erano stati portati dentro il cuore del sionismo. E ciò ha aiutato Israele a essere identificato quale rifugio sicuro per i perseguitati, con quel “mai più!” quale grido di battaglia.
Come ha notoriamente sottolineato Hannah Arendt, lo scopo del pubblico ministero era di inquadrare il processo come giustizia per i crimini contro gli ebrei. Il massacro di rom, gay, leader sindacali, socialisti, comunisti, disabili e membri di qualsiasi altro tipo di opposizione non era stato quasi stato menzionato.

Tom Hurwitz, Adolf Eichmann Was Ready for His Close-Up. My Father Gave It to Him, The New York Times (17/4/2022), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) ragazzi di Tel Aviv guardano una foto di Adolf Eichmann appesa in un’edicola.

Ma chi ne aveva bisogno?

Davidov, l’addetto al censimento, aveva aperto la porta senza bussare, era entrato zoppicando nella stanza e si era seduto stancamente. Aveva tirato fuori il suo taccuino ed era pronto a iniziare il lavoro. Rosen, l’ex venditore di caffè, macilento, con gli occhi pieni di disperazione, sedeva immobile sulla sua branda, a gambe incrociate. La stanza quadrata, pulita ma fredda, illuminata da una lampadina fioca, aveva pochi arredi: la branda, una sedia pieghevole, un tavolino, delle vecchie cassapanche non verniciate – niente armadi, ma chi ne aveva bisogno? – e un piccolo lavandino con un ruvido pezzo di sapone verde, appoggiato sul suo supporto – ne sentivi l’odore dall’altra parte della stanza.

Bernard Malamud, Take pity, The Complete Stories, Farrar, Straus and Giroux (1997), traduzione L.V.

Si ridussero a mangiare aragoste

9781440672873“Oh cielo”, dissero i padri pellegrini orripilati. Non avrebbero mangiato cose del genere. Anche le cozze abbondanti furono rifiutate, e gli abitanti del New England continuarono a evitarle fino agli anni Ottanta del Novecento. Le acque erano così ricche di aragoste che queste uscivano letteralmente dal mare strisciando e si accumulavano sulle spiagge desolate. Ma i padri pellegrini non volevano mangiare questi enormi mostri marini maculati, come del resto la maggior parte della gente fino a questo secolo. A quanto pare in preda alla disperazione, si ridussero alla fine a mangiare aragoste. Nel 1622 Bradford riferiva con vergogna che le condizioni dei coloni erano talmente cattive che l’unico “piatto che erano in grado di offrire ai loro amici era un’aragosta”.

Mark Kurlansky, Cod, Penguin (1997), traduzione L.V.

E la sua gemella dolente

2018_10_15La speranza e la sua gemella dolente, la disperazione, potrebbero essere considerate le co-muse della moderna narrazione ecologica. Questo è il mondo che abbiamo creato – un mondo di ferite – che è invariabilmente il soggetto di chi scrive di natura. La questione è come ci relazioniamo a queste perdite. Il bicchiere è vuoto al 95 percento o è pieno al 5 percento?

Elizabeth Kolbert, How to write about a vanishing world, The New Yorker (15/10/18), traduzione L.V.