Scrivere richiede una certa cura

Avevo sei anni.
Prendevo in mano un foglio di carta assorbente e accarezzandolo col palmo della mano lo poggiavo dove il pennino aveva lasciato le forme ripetute, umide, leggermente rialzate delle lettere dell’alfabeto.
Quell’operazione di asciugatura era parte di un atto che altrimenti sarebbe rimasto imperfetto, insoddisfacente.
Stavo scoprendo che scrivere richiede una certa cura.

Giovanni Mariotti, Piccoli addii, Adelphi (2020). Nella foto (Wikipedia, Willem van de Poll, Nationaal Archief) Renée, figliastra del fotografo Willem Van der Poll, tampona con la carta assorbente una macchia d’inchiostro nel 1932.

Tirare una retta

Tracciare i confini era quindi fondamentale per sapere da chi andare a reclamare le tasse ed è per questo che l’amministrazione egizia mise tanta cura in tale attività e, in generale, nel mantenimento e nella continua revisione di un dettagliato catasto dei terreni. Incaricati di queste operazioni erano gli agrimensori – antesignani dei moderni geometri, una professione quindi con origini molto antiche! -, definiti dai Greci «arpedonapti», annodatori di funi. Infatti il loro strumento di lavoro era proprio la fune: tirando una corda tra due punti distanti tracciavano una retta, da cui l’espressione tuttora in uso «tirare una retta».

Piero Martin, Le 7 misure del mondo, Laterza (2021)

Un gioco che non aveva nessun altro

Cagliari 1947, mia sorella Graziella (1932 – 2015) ha preso il tifo, sta molto male. I rimedi tradizionali non fermano la malattia che la sta rapidamente consumando, ha solo quindici anni.
Ci sarebbe una possibilità: il comando alleato dispone dei primi antibiotici arrivati con i militari dall’America. Il padre Francesco Vozza, Primario di ginecologia e ostetricia all’Ospedale civile e professore all’Università di Cagliari, chiede e ottiene dal collega ufficiale medico delle forze armate americane alcune dosi per la figlia morente.
Il prezioso farmaco, mai visto e provato, si presentava così: una scatola di latta lucida grigio-verde, identica a quelle delle munizioni, lunga 20 cm, alta 10 e profonda uguale; conteneva 12 graziose boccettine su tre file. Mai visti dei flaconi così, un bel vetro chiaro trasparente, il tappo rosso di gomma con un circoletto al centro come un bersaglio, e il punto in rilievo dove affondare la siringa; attorno alla chiusura un anello di alluminio. Misteriose sigle su una piccola etichetta bianca, si capiva però il nome, nero e in grassetto: Penicillin.
Con questa cura, Graziella è migliorata rapidamente, la febbre si è attenuata poi cessata, il volto avvizzito e terreo ha via via recuperato un colore meno terribile. La scatola è rimasta in casa per tanti anni come una preziosa reliquia; con i flaconi vuoti, il fratellino piccolo ha trovato un gioco che non aveva nessun altro.

Giorgio Vozza (3/12/2023). Nella foto (archivio famiglia Vozza) Graziella Vozza nel 1945 al Poetto, a Cagliari, con il fratello Riccardo e il cugino Emilio, due anni prima di ammalarsi di tifo.

Conoscendoti, troverai un modo

“David”, mi aveva chiesto Henry Kissinger un giorno dell’estate del 2017, dopo una lunga intervista per l’obituary apparso mercoledì scorso sul New York Times. “Stai scrivendo uno di quegli articoli che appariranno quando non potrò più discutere dei suoi presupposti?”.
Lo aveva detto con una scintilla maliziosa negli occhi. In una serie di conversazioni durate circa sette anni, avevo detto al signor Kissinger, quando me lo aveva chiesto, che stavo scrivendo della sua vita.
Il maestro della sottile arte diplomatica aveva capito perfettamente. Pochi tra coloro che vengono intervistati per il proprio obituary desiderano che la loro mortalità gli venga ricordata troppo esplicitamente. Ma non si diventa Henry Kissinger senza una cura attenta della propria immagine, e quella volta stava aspettando una risposta alla sua domanda.
“Signor Segretario”, avevo detto alla fine, “conoscendoti, troverai un modo”. Lui aveva ridacchiato e siamo andati avanti.

David E. Sanger, Henry Kissinger Always Tended to His Image, Even When It Came to His Obituary, The New York Times (30/11/2023), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia, LBJ Library, Jay Godwin) Henry Kissinger nel 2016.

È complicato

I beduini in Israele sono una comunità nomade che risiede in gran parte nel deserto israeliano del Negev e fanno parte della minoranza araba israeliana – il 21% del Paese – diffusa nelle città e nei villaggi. Ci sono circa 320.000 beduini in Israele, di cui circa 200.000 vivono in comunità riconosciute dal governo e circa 120.000 in baraccopoli non riconosciute. Molti beduini hanno prestato servizio nell’esercito israeliano, spesso come localizzatori, grazie alla loro profonda conoscenza della geografia dell’area, derivante da generazioni di nomadismo nel deserto.
Ebbene, si è scoperto che alcuni beduini israeliani che vivevano vicino alle comunità di confine devastate da Hamas, o vi lavoravano, hanno contribuito a salvare ebrei israeliani. Alcuni beduini sono stati rapiti da Hamas insieme agli ebrei, mentre altri sono stati assassinati da Hamas perché il gruppo terroristico ha considerato come “ebrei” meritevoli di essere uccisi chiunque vivesse o lavorasse nei kibbutz israeliani e parlasse ebraico.
E si trova che, dopo il 7 ottobre, alcuni di quei beduini che hanno salvato ebrei israeliani hanno ricevuto sguardi ostili e insulti silenziosi da parte di altri ebrei israeliani, che automaticamente presumevano che fossero simpatizzanti di Hamas.
E per tutto questo tempo le vittime sia ebree sia beduine di Hamas sono state curate insieme, negli ospedali israeliani dove quasi la metà di tutti i nuovi medici sono ora arabi o drusi israeliani, così come lo sono il 24% circa degli infermieri e il 50% dei farmacisti.
Sì, un arabo beduino israeliano può salvare un ebreo israeliano al confine con Gaza la mattina, essere discriminato dagli ebrei per le strade di Beersheba nel pomeriggio e andare fiero del fatto che sua figlia – una dottoressa formatasi in una facoltà di medicina israeliana – sia rimasta sveglia tutta la notte a prendersi cura di pazienti ebrei e arabi all’ospedale Hadassah.
È complicato.

Thomas L. Friedman, The Rescuers, The New York Times (22/11/2023), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia, World Economic Forum) Thomas Friedman.

Come se stesse dando loro la terra in cui crescere

Quando Abbado non era in tournée amava lavorare nella sua casa in Sardegna di fronte al mare, immersa in una vegetazione lussureggiante. Sid McLauchlan racconta: «Sono stato tante volte da lui. Ricordo una mia lunga permanenza di due settimane in particolare, perché stavamo rieditando le sinfonie di Beethoven. La cosa che più di tutte mi colpì fu il suo amore per quelle piante, per i fiori, per qualcosa di vivo che stava crescendo. Le prime volte pensai a un piacevole hobby ma in quei giorni capii invece che era qualcosa di molto più grande. E iniziai a vedere dei paralleli fra la sua vita musicale e quella da “giardiniere”: il suo prendersi cura delle piante, il suo volersi assicurare che ognuna di loro avesse il suo posto e il concime giusto per crescere al meglio. In fondo era uguale al lavoro che stava facendo con le sue orchestre. Era come se stesse dando loro la terra in cui crescere, aiutandole a trovare la loro voce musicale».

Helmut Failoni, La musica fa 90, La Lettura – Corriere della Sera (25/6/2023). Nella foto (L.V.) la spiaggia del Lazzaretto e la sua vegetazione, vicino ad Alghero e alla casa e al giardino di Claudio Abbado.

Cercando di non masticare

A specie capaci di cognizione come la nostra può sembrare ovvio che mangiare i propri figli non sia la mossa più propizia per dei genitori novelli. Ma se mettete casualmente delle uova fecondate di fronte a un anfibio, questo le divorerà: dopo tutto le uova sono un pasto proteico gustoso e gratuito. Ha dunque senso che i circuiti neurali per la genitorialità possano inattivare l’istinto di base di mangiare le uova. Questo stimolo è particolarmente utile per gli animali dalla cova in bocca: rane e pesci che incubano e proteggono i propri piccoli nella cavità orale. Chiaramente l’impulso ad avere cura senza consumare è molto utile da questo punto di vista: sarebbe l’equivalente genitoriale di succhiare un lecca lecca per settimane cercando di non masticare.

Lucy Cooke, Bitch, Penguin (2022), traduzione L.V. Nell’illustrazione (The Embryo Project Encyclopedia) una rana australiana oggi estinta, Rheobatrachus silus, che covava le uova nella bocca.

Un’oasi di cura democratica

Il Building 10, noto anche come Centro Clinico degli N.I.H., è il più grande ospedale al mondo dedicato esclusivamente alla ricerca clinica. Per essere invitati, in genere i pazienti devono avere una malattia rara o che non risponde ai trattamenti in uso, e rappresentare quindi una questione di interesse medico. Idealmente le malattie di questi pazienti dovrebbero anche essere di “rilevanza nazionale e internazionale”, secondo quanto è scritto in una guida del Centro, con il potenziale di rivelare qualcosa di importante su come funziona il corpo umano. Molti scienziati degli N.I.H. studiano malattie comuni, come il covid, il cancro o l’alcolismo. Altri invece si concentrano su condizioni che colpiscono poche persone e che anche per questo sono poco attraenti per l’industria. Il governo federale sostiene tutti i costi. La maggior parte dei ricercatori non chiede fondi ad altri enti e i pazienti non pagano nulla per i trattamenti.
Il N.I.H. ha avviato la costruzione del Building 10 alla fine degli anni Quaranta, nel periodo di grande ottimismo scientifico che era seguito alla Seconda guerra mondiale. Durante la cerimonia di inaugurazione, il Presidente Truman aveva promesso che il Centro Clinico sarebbe stato un luogo “per tutte le persone e non solo per i medici e per i ricchi”, un’oasi di cura democratica. In quegli stessi anni il Congresso rifiutava la richiesta dello stesso Truman di istituire una forma di assicurazione sanitaria universale, pur avendo stanziato molti fondi a favore delle ricerche di altissimo livello e delle sperimentazioni ad alto contenuto tecnologico del Centro Clinico. Anche allora, repubblicani e democratici non riuscivano a trovare un accordo sulle virtù di investimenti su larga scala nella sanità pubblica, sebbene fossero riusciti a portare avanti il progetto del Centro clinico, data la promessa di scoperte mediche straordinarie.

Beverly Gage, Nobody Has My Condition But Me, The New Yorker (23/1/2023), traduzione L.V. Nella foto (N.I.H.) il Presidente Truman pone la prima pietra del Centro Clinico degli N.I.H. il 22 giugno 1951.