Discende da un curioso quadrupede

La steppa eurasiatica è una vasta fascia erbosa che si estende dall’Ungheria alla Manciuria. Le sue dimensioni sono quasi impossibili da afferrare: un panorama tra il verde e il marrone chiaro, le cui estremità sono più distanti l’una dall’altra di quanto Anchorage lo è da Miami o Il Cairo da Johannesburg. Il suo significato storico discende da un curioso quadrupede che vive lì da circa centomila anni: il cavallo. Con le sue zampe lunghe, i polmoni potenti, i tendini elastici e un intestino capace di demolire l’erba coriacea, la creatura prospera nella steppa aperta. I cavalli erano ben attrezzati per resistere all’era glaciale, dato che i loro duri zoccoli erano in grado di aprire un varco nella neve e nel ghiaccio per far venire alla luce l’erba sottostante.
“Il cavallo è stato il mezzo di trasporto più efficiente e duraturo che gli esseri umani abbiano mai usato”, scrive Anthony Sattin, un giornalista britannico, in “Nomads”, “e la capacità di cavalcare un cavallo ha trasformato la vita sulla Terra, forse in nessun luogo più che nella steppa”. I cavalli erano già allevati in cattività nella steppa occidentale almeno cinquemila anni fa. La ruota fu inventata più o meno nello stesso periodo e la combinazione delle due innovazioni ha permesso alla pastorizia nomade di sbocciare.

Manvir Singh, The Mongol Hordes: They’re Just Like Us, The New Yorker (1-8/1/2024). Nella foto (Wikipedia) un esemplare di cavallo di Przewalski, comunemente noto anche come takhi, cavallo selvatico mongolo o cavallo dzungariano.

Questa combinazione di immortalità e replicabilità

Se rimanesse un’attività di ricerca scientifica, un’A.I. mortale potrebbe portarci più vicini a una replica del nostro cervello. Ma Hinton è arrivato a pensare, con rammarico, che l’intelligenza digitale potrebbe essere più potente. Nell’intelligenza analogica, “se il cervello muore, muore anche la conoscenza”, ha detto. Nell’intelligenza digitale, invece, “se un particolare computer muore, le forze delle sue connessioni possono essere utilizzate su qualsiasi altro computer. E anche se dovessero morire tutti i computer, una volta immagazzinate da qualche parte tutte le forze delle connessioni, basterebbe creare un altro computer digitale ed eseguirle. Diecimila reti neurali possono imparare diecimila cose diverse contemporaneamente, e poi condividere ciò che hanno imparato”. Secondo Hinton, questa combinazione di immortalità e replicabilità ci dice che “dovremmo preoccuparci che l’intelligenza digitale prenda il posto dell’intelligenza biologica”.

Joshua Rothman, Why the Godfather of A.I. Fears What He’s Built, The New Yorker (20/11/2023), traduzione L.V. Nel disegno (Wikipedia) un’immagine simbolica dell’intelligenza artificiale.

Cammina?

Molti anni dopo – dopo che la vita aveva tirato i suoi dadi e la combinazione li aveva riportati vicini – capitava che Fruttero e Calvino si incontrassero nelle viuzze di Castiglione, in bicicletta, coi sacchetti della spesa sul manubrio. Un pomeriggio, con un certo imbarazzo, Calvino gli chiese di passare da lui, voleva fargli leggere qualcosa e avere il suo parere. Era il manoscritto, appena terminato, di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Nel pomeriggio, sul prato di casa si ripeteva il rito: due sedie, il celebre tè freddo di Chichita, le sigarette, qualche frutto (pesche). Fruttero fumava e leggeva, sorseggiando. Calvino era nervoso. Si sedeva e si alzava. Ogni tanto i due scambiavano qualche scarna parola. «Il nostro linguaggio» ricordava Fruttero, «quando ci capitava (raramente) di parlare di letteratura, era del resto ridotto a poche formule banalissime: “Cammina?”, “Prende?”, “Sta in piedi?”, “Funziona?”».

Alberto Riva, Ultima estate a Roccamare, Neri Pozza (2023)