La Terra ci chiede qualcosa di più della gratitudine

Come scienziati ci siamo chiesti: perché? Perché esseri solitari e reclusi devono lottare per arrampicarsi su un promontorio roccioso ed entrare in una comunità di un centinaio di esseri umani? Perché tutte queste tartarughe sono venute da noi, in numeri senza precedenti, per fare la cosa più importante per loro? Quando i nostri studenti sono andati alla ricerca di siti adatti a trasferire al sicuro le molteplici uova che avevano deposto non solo nell’ultimo anno, hanno trovato una risposta. Le lingue di sabbia preferite dalle tartarughe erano sott’acqua a causa di piogge più intense del solito. Quando il livello del lago si è alzato, hanno dovuto cercare un terreno più in alto. Ho avuto l’impressione che le tartarughe azzannatrici fossero diventate rifugiati climatici.
E questo è il pensiero che non mi da pace.
Penso che le tartarughe si siano dirette verso l’alto in preda a una sorta di disperazione, come chiedendoci di prestare attenzione, per farci vedere che stiamo vacillando sull’orlo della catastrofe climatica con i nostri parenti, animali e vegetali, che scompaiono a ondate dopo ondate di estinzioni. La scienza, armata di modelli con cui prevedere gli imminenti cambiamenti, è un potente strumento per affrontare queste crisi. Ma non è l’unico. Come scienziato sento dati indiscutibili, e anche un messaggio, allo stesso tempo materiale e spirituale, portato dalle tartarughe azzannatrici: la Terra ci chiede qualcosa di più della gratitudine.

Robin Wall Kimmerer, The Turtle Mothers Have Come Ashore to Ask About an Unpaid Debt, The New York Times (22/9/2023), traduzione L.V.

Lucy avrebbe dovuto portare in braccio il suo bambino indifeso

Il cucciolo di uno scimpanzé sta a cavalcioni sulla schiena di sua madre quando lei si sposta nella foresta, camminando a quattro zampe sulle nocche. Quando lei si arrampica, il cucciolo si tiene attaccato alla sua pelliccia con le mani forti e l’alluce prensile con cui si aggrappa. Un bambino di Lucy non sarebbe stato in grado di fare lo stesso. In quanto Austrolopithecus, Lucy stava in posizione eretta. Se si fosse messa un bambino sulla schiena, le sarebbe scivolato. Né le dita dei piedi di un neonato di Austrolopithecus erano sufficientemente forti da tenerlo attaccato a sua madre quando lei si arrampicava.
Le prove che la genetica offre sulle tre diverse specie di pidocchi che dimorano sugli esseri umani (i pidocchi della cute, quelli degli indumenti e le piattole del pube) suggeriscono che i nostri antenati ominidi potrebbero aver iniziato a perdere il proprio pelo corporeo intorno al tempo di Lucy. Un bebè potrebbe dunque non avere trovato molto a cui aggrapparsi. Lucy avrebbe dovuto portare in braccio il suo bambino indifeso.

Jeremy DeSilva, First Steps, HarperCollins (2021), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia, Musée national d’histoire naturelle, Parigi) una ricostruzione dello scheletro dell’Australopithecus afarensis Lucy.