Evocando assassini immaginari

20150805_150958

Nel 1878, quando Dostoevskij si mise a scrivere “I fratelli Karamazov”, in Russia era appena esplosa una sorta di mania popolare per i crimini, e i processi nei tribunali erano molto seguiti sui giornali. Pochi anni prima, lo zar riformista Alessandro II aveva aperto i tribunali al pubblico e aveva inoltre concesso maggiore libertà alla stampa. Conseguenze di queste due novità erano, da un lato, un nuovo pubblico di lettori russi, famelico di spaventose storie di omicidi e, dall’altro lato, una stampa liberata, ben contenta di offrire tali storiacce. C’erano periodici dedicati ai crimini, come Glasnji Sud (“Corte aperta”), mentre sui quotidiani la “cronaca criminale” era diventata una rubrica fissa. (Dostoevskij trovò la vicenda al cuore di “Delitto e castigo” in un articolo di giornale su un giovane che aveva ucciso un cuoco e una lavandaia con un’ascia; il giornale diceva che era un vecchio credente, un raskolnik). Percependo l’interesse del pubblico sia in tribunale sia al di fuori, i pubblici ministeri e gli avvocati difensori iniziarono ad argomentare e a persuadere con stile, spesso evocando assassini immaginari le cui storie avrebbero potuto distrarre i giurati dal caso reale che avevano di fronte. Raskolnikov, l’indigente assassino con l’ascia di “Delitto e castigo”, era dunque un soggetto popolare.

Jennifer Wilson, The Cacophonous Miracle of “The Brothers Karamazov”, The New Yorker (traduzione L.V.). Nella foto (L.V.) il cappello di Dostoevskij nella casa-museo di Pietroburgo.

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.