Consideravano la pittura un divertimento peccaminoso

A circa otto o nove anni, credo, avevo già una mania irresistibile per scarabocchiare sulla carta, disegnare fronzoli sui libri, imbrattare muri, cancelli, porte e facciate dipinte di recente, con ogni sorta di disegni, scene di guerra o incidenti dell’arena dei tori. Un muro bianco e liscio esercitava su di me un fascino irresistibile. Ogni volta che mi procuravo qualche centesimo compravo carta o matite; ma siccome non potevo disegnare a casa, perché i miei genitori consideravano la pittura un divertimento peccaminoso, andavo per i campi e, seduto su una sponda al lato della strada, disegnavo carri, cavalli, contadini e qualunque oggetto della campagna attirasse la mia attenzione. Di tutti questi disegni avevo fatto una grande collezione, che custodivo come fosse un tesoro di monete d’oro. Mi piaceva anche abbellire i miei disegni con i colori, che ottenevo raschiando la pittura dalle pareti o inzuppando le legature rosso vivo o azzurro scuro dei libretti delle cartine per sigarette, che allora erano dipinte con colori solubili. Ricordo che ero diventato molto abile a estrarre i colori dalle carte colorate, che impiegavo anche in luogo dei pennelli, inumidite e arrotolate come un moncherino; un’occupazione che mi era stata imposta dalla mancanza di una scatola di colori e del denaro per comprarla.

Santiago Ramón y Cajal, Recollections of my life, traduzione dallo spagnolo all’inglese di E. Horne Craigie e Juan Cano, MIT Press (1989), traduzione L.V. Nell’immagine (MIT Press) un dipinto di Santiago Ramón y Cajal fatto quando era bambino.

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