“Da” aveva risposto Kornienko

Alle 11:51 i tre uomini nella Stazione spaziale entrarono nella capsula Sojuz, un veicolo angusto dall’aspetto di un cilindro schiacciato sulla cima della Stazione stessa. La Sojuz era piena di interruttori e manopole. “Fuori è buio, e dentro è ancora più buio”, aveva scritto Kelly nel suo diario. “Fa freddo.” Indossava una felpa nera della NASA e si era abbassato il cappuccio quasi fin sopra gli occhi.
Gli uomini ricevettero istruzioni di lasciare il portellone della Sojuz chiuso ma sbloccato, in caso i detriti avessero colpito la capsula anziché l’ISS e loro dovessero rientrare di corsa. Kornienko si concentrò sul meccanismo di chiusura, immaginando i passaggi che avrebbe dovuto fare in caso di crisi. “Non c’erano parole, solo silenzio“, mi disse. Mentre ognuno si ritirava nei propri pensieri, Kelly era rimasto anche lui colpito dall’improvvisa tranquillità. Nel diario aveva scritto: “Sento soltanto il suono dei ventilatori interni alla Soyuz e il mio respiro”.
Al crescere della tensione Padalka aveva detto: “Sapete, se saremo colpiti saremo messi veramente male”.
Da” aveva risposto Kornienko, “veramente male”.

Raffi Khatchadourian, The elusive peril of space junk, The New Yorker (21/9/2020), traduzione L.V. Nella foto (Nasa) Scott Kelly, Gennadij Padalka e Michail Kornienko in una pausa durante l’addestramento con la Sojuz nel cosmodromo di Bajkonur in Kazakistan (2015).

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