Un dilemma difficile da risolvere

Le catene del freddo presentano un dilemma difficile da risolvere: hanno enormi costi ecologici sia quando sono assenti sia quando sono presenti. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha stimato che, se lo spreco alimentare globale fosse cumulato in un unico Paese, le emissioni di gas serra di tale Paese sarebbero le terze al mondo, subito dopo quelle della Cina e degli Stati Uniti. D’altra parte i refrigeranti chimici e l’energia da combustibili fossili utilizzati per raffreddare rappresentano già oltre il sette per cento delle emissioni globali, solo l’uno per cento in meno rispetto a quelle delle perdite alimentari.

Nicola Twilley, Africa’s Cold Rush and the Promise of Refrigeration, The New Yorker (15/8/22), traduzione L.V. Nella foto (Wikipedia) un frigorifero della General Electric del 1927.

La tradizione dei topi nei labirinti

Un giorno del 1898 Edmund Sanford, un eminente professore di psicologia della Clark University, stava discutendo delle straordinarie capacità di orientamento dei topi con due studenti di dottorato, Linus Kline e Willard Small. Kline in seguito ricordò che Sanford, appena tornato da un viaggio a Londra, “suggerì subito la possibilità di utilizzare lo schema del labirinto di Hampton Court allo scopo di costruire un apparato per studiare come questi animali ‘ritrovano la strada di casa’”. Kline, che non aveva mai sentito parlare di un labirinto, cercò il progetto del rompicapo orticolo di Hampton Court nell’Enciclopedia Britannica, lo deformò per adattarlo a una scatola quadrata, ne ridusse le dimensioni all’altezza di un roditore e sostituì le siepi con reti resistenti al rosicchiare di questi animali. Alcuni anni più tardi Small pubblicò i risultati della prima ricerca sull’intelligenza dei ratti bianchi, messa in evidenza dalla loro capacità di trovare l’uscita da un labirinto. Insieme, come ha scritto lo storico della psicologia C. James Goodwin, “lanciarono la tradizione dei topi nei labirinti che continua ancora oggi”.

Nicola Twilley, How the World’s Foremost Maze-Maker Leads People Astray, The New Yorker (29/11/2021), traduzione L.V. Nella foto (viene da qui) il labirinto di Hampton Court a Londra.

Le preferenze rivelate

Nell’industria alimentare si parla molto delle “preferenze rivelate”. Nei sondaggi le persone dicono di desiderare un’offerta di prodotti sani, ma l’analisi dei comportamenti d’acquisto rivela una diversa gerarchia di priorità: i consumatori si preoccupano prima di tutto del gusto e in una certa misura del rapporto qualità-prezzo; qualsiasi altra qualità pubblicizzata su un prodotto, che si tratti di benefici per la salute o dell’impatto ambientale, rimane molto in secondo piano. “Se riesci a offrire il gusto a un prezzo giusto in un prodotto buono per la salute, la gente lo preferirà sempre”, mi ha detto Nick Hampton, direttore generale di Tate & Lyle. “Ma se non riesci a combinare i primi due aspetti, è meglio che lasci perdere”.

Nicola Twilley, The Race to Redesign Sugar, The New Yorker (28/9/2020), traduzione L.V.

Ogni giorno più di diciannove cucchiaini di zuccheri aggiunti

Fino alla fine del Settecento, prima che la produzione di zucchero iniziasse a diventare industriale, la maggior parte delle persone consumava pochissimo di ciò che i nutrizionisti chiamano zuccheri “liberi” o “aggiunti”: dolcificanti diversi, per esempio, dal lattosio e dal fruttosio naturalmente presenti nel latte e nella frutta, rispettivamente. Nell’Ottocento un americano medio sarebbe vissuto e morto senza aver mai incontrato una sola caramella prodotta in fabbrica, per non parlare dell’offerta di yogurt, snack, salse, condimenti, cereali e bevande con zuccheri aggiunti che ai nostri giorni si trovano sugli scaffali dei supermercati. Oggi l’americano medio ingerisce ogni giorno più di diciannove cucchiaini di zuccheri aggiunti. Non solo la maggior parte di questi zuccheri non viene mai a contatto con le nostre papille gustative, ma i nostri recettori per il dolce sono anche meno efficienti di quelli per altri sapori. La nostra lingua può rilevare l’amaro a concentrazioni di poche parti per milione, ma perché un bicchiere d’acqua abbia un sapore dolce dobbiamo aggiungere quasi un cucchiaino di zucchero.

Nicola Twilley, The Race to Redesign Sugar, The New Yorker (28/9/2020), traduzione L.V.

Calorie che consumiamo ma non gustiamo

Avraham Baniel ha iniziato a riflettere sullo zucchero alla fine degli anni Novanta, mentre era consulente di un’azienda alimentare britannica che stava lanciando un nuovo dolcificante artificiale negli Stati Uniti. Le prime vendite erano state lente e le ricerche sui consumatori sembravano mostrare che i bambini, in particolare, preferivano decisamente e ostinatamente lo zucchero vero. Ad Avraham venne in mente una cosa che aveva notato negli anni Quaranta, quando lo zucchero era rigorosamente razionato. La sua vicina, un’insegnante di scuola elementare, gli aveva chiesto se, essendo lui un chimico, potesse procurarle dell’amido di mais per fare un budino. La teoria della vicina era che la struttura densa e appiccicosa dell’amido, andando a ricoprire la lingua, avrebbe aiutato la magra razione di zucchero a sembrare più soddisfacente ai suoi studenti.
Dopo aver aiutato la vicina, Avraham si preparò un budino per sé e scoprì che aveva ragione: più aumentava la viscosità e più dolce sembrava essere il sapore, almeno fino a un certo punto. Sessant’anni più tardi, Avraham iniziò a chiedersi se il modo migliore per ridurre la quantità di zucchero fosse non la sostituzione ma la riformattazione. Il saccarosio viene trasportato sui recettori del gusto presenti sulla lingua dalla saliva mentre i cristalli di zucchero si dissolvono in bocca, ma solo un quinto, circa, dello zucchero presente in un tipico boccone di biscotto si lega effettivamente ai recettori. Il resto finisce in pancia: calorie che consumiamo ma non gustiamo.

Nicola Twilley, The Race to Redesign Sugar, The New Yorker (28/9/2020), traduzione L.V.

Gli adolescenti del Texas

2019_04_08Atila Novoselac e Richard Corsi, un altro ricercatore di HOMEChem, hanno recentemente collaborato a un ulteriore studio nelle scuole superiori vicine a loro e hanno scoperto che i livelli più elevati di emissioni erano sempre di due sostanze chimiche che si trovavano esattamente nello stesso rapporto in ogni luogo di misurazione. Dopo un po’ di lavoro investigativo hanno identificato il colpevole: i deodoranti Axe, che pare che gli adolescenti del Texas si spruzzino, tra una lezione e l’altra, nelle aule.

Nicola Twilley, The Hidden Air Pollution in Our Homes, The New Yorker (8/4/19), traduzione L.V.

Un mal di testa da orso

bear_sachalinTradizionalmente gli Ainu di Sachalin descrivevano l’intensità del mal di testa martellante paragonandolo all’andatura dell’animale a cui assomigliava di più: un mal di testa da orso era peggiore di un mal di testa da mosco siberiano. (Se un mal di testa era accompagnato da un brivido di freddo, era descritto con un’analogia alle creature marine).

Nicola Twilley, The Neuroscience of Pain, The New Yorker (2/10/18), traduzione L.V. Nella foto (Sergej Gorškov, Siberian Times) due orsi a Sachalin.